A cosa servono i campioni

L’estate si avvia a conclusione.
Con l’avvertenza che la stagione estiva non è uguale in tutta Italia: per alcuni finisce con l’apertura delle scuole, per altri terminerà con “i morti”.





C’è comunque una data simbolica che costringe a fare i conti con il calendario. Vale per tutti: nord e sud, mare e monti, isole incluse.
È la prima di campionato.
Essa ci costringe ad un primo rendiconto della stagione in esaurimento.
E pensare che le aspettative non erano così promettenti.
A cominciare dalla vittoria degli Europei.
Tutti, parlando di Europa, usiamo l’espressione della “casa comune”. Ma il torneo metteva le nazioni del nostro continente una contro l’altra e molte contro di noi (che siamo arrivati alla finale).





Ebbene, la mia impressione è che -cessato il fastidio per essere stati eliminati- gli altri paesi abbiano vissuto la nostra vittoria con simpatia.
Questo grazie a due elementi. Primo: gli Inglesi sono stati particolarmente antipatici. Secondo: eravamo la squadra dei “senza campioni”.





Per quanto riguarda i Britannici, gli spettatori europei erano ormai prevenuti non solo per l’infinito tormentone della Brexit ma anche per come si sono comportati i tifosi locali, mostrando in entrambi i casi la stessa arroganza e supponenza.
D’altronde il principe ereditario (che è al mondo solo per rispettare il protocollo) che “fugge” senza congratularsi con Mattarella e senza premiare i vincitori fa coppia perfetta con i calciatori inglesi che immediatamente si tolgono, disgustati, la medaglia di secondi. Sarebbero loro gli inventori del fair play?





Per quanto riguarda la caratteristica della squadra italiana, Il nostro allenatore è stato bravissimo a far apparire una scelta quasi obbligata come una preferenza voluta. Una opzione a metà tra il tecnico e il filosofico.
In realtà, andare fino in fondo sulla linea “giovani, normali, affiatati ed affidabili” ha necessitato grande coraggio a fronte di una perplessità generale.
Ma a me -che non capisco niente di calcio- pare che stia succedendo lo stesso fenomeno nel campionato in partenza.





Le nuove star sono gli allenatori e i campioni, già scarseggianti, lasciano il Belpaese.
Quelli che non se sono ancora andati hanno ricominciato a giocare ma portano ovunque con se’ (tranne in campo) il cellulare nella speranza di una telefonata che vale milioni.





Certo che se la prima domenica metti il campione dei campioni in panchina, ciò vuol dire che non ti strapperesti le vesti se poi Lui decidesse di andarsene.
Non sono così ingenuo. Non credo dipenda da un effetto imitativo della Nazionale ma dalla necessità di fare cassa dopo i mancati introiti degli ultimi due anni.
Ma la squadra azzurra potrebbe guadagnarci.





Perché è vero che in cambio dei campioni le compagini italiane acquistano all’estero dei semi campioni, dei similcampioni ma la probabilità per un emergente nostrano di giocare di più e di farsi notare aumentano.





Stimolato da questa similitudine ne azzardo un’altra. Quella del governo.
Anche lì la star è l’allenatore; anzi, in questo caso, meglio il termine di “commissario” tecnico.
La squadra, se non di mediani, è fatta da dignitosi professionisti che sarebbero anche affiatati tra di loro se non avessero i rispettivi segretari di partito che ordinano di polemizzare e prendere le distanze. Quando non arrivano al punto di ribaltarne le scelte, prese in consiglio dei ministri. Vedi la decisione di Conte nel caso della riforma della giustizia.
Diciamo la verità, in questo caso non si è fatto fatica: i campioni da tenere fuori erano pressoché inesistenti. Anzi, quelli nominati sono l’ultima riserva posseduta dai partiti.
In un’estate di campioni e di medaglie, io ho scelto il mio preferito: Gianluca Vialli.
Era lui a rappresentare perfettamente la nostra nazionale: coraggioso, fragile, fiducioso.





I nostri giocatori, tutti, hanno testimoniato quanto egli sia stato utile, in termini di tecnica, psicologia e umanità.
Sono impressionato dalla sua sobrietà. Un minuto dopo il fischio finale è scomparso. Non ha detto una parola, non ha dato una intervista. Non ha messo in ombra i vincitori.





In un paese sentimentale come il nostro, poteva diventare l’eroe assoluto, vincere l’oscar per il migliore attore non protagonista.
Voi direte che dipende dalla malattia. Ma penso che proprio quelli siano i momenti in cui uno ha bisogno di affetto, vicinanza. Di provare a dare un senso a quanto sta capitandogli. Tanto di cappello.



Moondo
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