Roma: quattro crisi e quattro rivoluzioni

La crisi di Roma ha, almeno, quattro dimensioni: economica, sociale, politica e funzionale che per di più si innestano in una cornice istituzionale inadeguata.





Per comprendere i termini della crisi economica è sufficiente guardare al confronto dell’andamento del valore aggiunto pro capite prodotto nelle città metropolitane di Roma e Milano: dopo l’avvicinamento realizzatosi negli anni ’80 e ’90 dello scorso secolo, l’ultimo ventennio è segnato da una dinamica di divaricazione ai danni di Roma. La stessa tenuta occupazionale è stata prevalentemente quantitativa, con la creazione di posizioni a basso reddito e la riduzione di quelle più qualificate.





La crisi sociale ha i suoi aspetti eclatanti (a partire dalla diffusione pervasiva della criminalità organizzata  che concretamente significa spaccio, prostituzione, usura, pizzo con il loro portato di violenza e intimidazioni diffuse in varie parti del territorio) e quelli meno eclatanti (la solitudine e le difficoltà dei deboli, -siano essi poveri, anziani soli, famiglie con persone non autosufficienti-) che si sovrappongono agli impatti asimmetrici dei fenomeni migratori ed alle conseguenti tensioni.





La crisi politica si è espressa emblematicamente nei tre cambi di maggioranza nelle ultime tre tornate elettorali e più profondamente nell’assenza di visioni trainanti, di idee del futuro condivise che perdura ormai da una ventina d’anni e attraversa trasversalmente i diversi schieramenti politici.





La crisi funzionale, infine, è quella che più direttamente investe le responsabilità delle amministrazioni che si sono succedute. Scelte urbanistiche frammentate in episodiche contrattazioni (grandi e piccole) con i proprietari dei terreni (esemplare l’infausta vicenda del progetto dello stadio a Tor di Valle) e da decenni prive di una visioni d’insieme; politiche della mobilità condizionate da un’azienda di trasporto pubblico di proprietà comunale che è la più inefficiente d’Italia e dal lento e confuso procedere dell’unico intervento infrastrutturale che assorbe ogni risorsa (la linea C della metro);  gestione dei rifiuti improntata alla  demagogia nominalistica ed al “rifiuto” di ogni scelta minimamente impegnativa sull’impiantistica che ha prodotto il modello di gestione dello smaltimento più economicamente costoso e meno ambientalmente sostenibile che si possa immaginare (l’esportazione di enormi quantità verso discariche e impianti di altre regioni); servizi sociali ancora gestiti con la logica della “lottizzazione” oligopolistica degli utenti tra grandi operatori, nonostante le evidenze distorsive emerse (ma non certo focalizzate) con l’indagine impropriamente chiamata “mafia capitale”.





A tutto ciò si aggiunge, come detto, una cornice istituzionale palesemente inadeguata; con l’ibrido impotente della città metropolitana da una parte ed il mero nominalismo della ridefinizione del comune capoluogo come “Roma Capitale” dall’altra che è stata ben descritta -nelle sue caratteristiche e nella sua storia- dagli articoli di Giampaolo Sodano e Mario Pacelli su queste pagine.





Attribuire la responsabilità esclusiva di questo stato di cose alla improvvisata compagine che ha gestito la città negli ultimi anni (e che per inesperienza e incompetenza ha contribuito ad aggravare la situazione) è un espediente polemico che gli schieramenti politici tradizionali utilizzano per evitare di mettere in discussione le scelte fatte (o non fatte) dalle amministrazioni precedenti, che quella attuale ha sostanzialmente riproposto.





Fino a questo momento centrodestra, centrosinistra e populisti stanno affrontando la cruciale scadenza del rinnovo dell’amministrazione della Capitale limitandosi a riproporre le proprie retoriche  e guardandosi bene dal mettere in discussione i paradigmi che hanno, di fatto, caratterizzato in modo omogeneo i governi della città nell’ultimo ventennio.  





Ciò che occorrerebbe è, invece, una coraggiosa soluzione di continuità, almeno sul versante della funzionalità urbana: con l’affermazione di una capacità di indirizzo pubblico (e della trasparenza di mercato) nelle politiche urbanistiche;  il riconoscimento della insostenibilità dell’attuale azienda municipale di trasporto pubblico  e la messa in campo di un progetto che - salvaguardando chi nell’azienda pubblica lavora veramente- abbia come priorità l’interesse degli utenti e non delle corporazioni politico-sindacali; l’assunzione di scelte coraggiose sull’impiantistica dei rifiuti che liberi risorse da destinare alla crescita della differenziata e dei relativi trattamenti; il cambio di modello nella gestione dei servizi sociali, passando da quello dell’affidamento tramite appalti  a un sistema che consenta la scelta dei cittadini tra operatori certificati e efficacemente controllati dalla amministrazione pubblica.





Sarebbero quattro rivoluzioni che  implicherebbero la rottura con interessi economici e sociali consolidati, dotati di notevole influenza elettorale. Ma che potrebbero raccogliere i consensi di chi si sente innanzitutto cittadino e crede ci sia bisogno di un cambiamento.





L’opportunità esiste. In tutto il mondo le città sono al centro di processi di riorganizzazione dei servizi funzionali fondati sull’utilizzo dei dati digitalizzati e il PNRR italiano mette a disposizione risorse per avviarli e svilupparli. L’esperienza estrema vissuta nei mesi del lockdown ha, d’altra parte, paradossalmente consentito di individuare criticità e potenzialità dei sistemi urbani spesso sottovalutate aprendo riflessioni innovative sulla ridefinizione delle morfologie e delle relazioni interne (si pensi ai progetti sulle città dei 15 minuti).





Vedremo se qualcuno, dentro o fuori gli schieramenti consolidati, si dimostrerà capace di cogliere questa occasione.   



Moondo
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