In bilico (parte seconda)

Seconda parte dell'articolo "In bilico" del 20/05/2021.





Molti anni fa Karl Marx ci spiegò che ciò che noi percepiamo come “crisi del sistema” è in realtà il modo in cui il sistema sta superando la crisi e trovando un nuovo equilibrio.





La crisi, di cui non ci eravamo resi conto, aveva in realtà preceduto quel momento evidenziato alla nostra consapevolezza.





Un altro contesto, certamente, ma la bella duttilità del concetto lo fa risuonare ancora prezioso alle nostre orecchie.





Nessuno degli agenti (che mi rifiuto di definire partiti) attualmente in campo ha alcuna possibilità di disegnare un progetto generale valido per l’Italia e di riconoscersi in esso, diffondendolo e difendendolo.





Essi sono uniti tra loro da una profonda indifferenza per la globalità dei valori costituzionali (indifferenza che pare a volte sfiorare la non conoscenza); agiscono dilaniati da dinamiche interne che giustificano giravolte personali che non sorprendono neppure più; si nutrono di slogan (anche questi meno durevoli dello yogurt) e soltanto nei momenti “migliori” li sostituiscono con incerte opinioni.





Tutto nella loro azione è strumentale alla sopravvivenza immediata. Il principio comune è “Primum vivere, numquam philosophari”.





Come mai potrebbero assumere un punto di vista generale, scegliendo gli obiettivi da proporre, gli interessi da difendere e i valori da sostenere?





Non vi è da stupirsi di questa dolorosa situazione: nulla nella Storia va perduto e il passato, che ci piaccia o meno, ci insegue.





Abbiamo un cosidetto partito nato da una operazione chimica, guidata dalla volontà di far dimenticare la precedente militanza comunista e di garantire la interessata spoliazione del patrimonio pubblico italiano.





Ne abbiamo un altro che si erge a difensore della identità nazionale, chinandosi a baciare quella bandiera che sino a pochi anni fa adibiva soltanto a usi igienici.





Il resto è, se vogliamo, ancora più triste. La sistematica e orgogliosa difesa della ignoranza si unisce, in un coro stonato, alla scoperta di grandi poteri occulti e a un populismo senza popolo.





Chi ha dichiarato di avere sconfitto la povertà siede accanto a chi pensa che uscire dall’Europa sia come cambiare marca di sigarette. Tutti, come già segnalato, cavalcano lo slogan senza nemmeno credervi davvero.





Ma torniamo al “suggerimento” di Marx. Possiamo davvero credere che questo momento orribile sia esso stesso la crisi? O, piuttosto, la vera crisi non sta a monte, nel formarsi di questo disequilibrio tra società e politica?





E allora, non potrebbe essere che lo sfascio attuale sia invece il passaggio attraverso cui la società italiana cerca di andare oltre la crisi?





La febbre viene quando il corpo combatte contro la malattia, non può essere scambiata per la malattia stessa.





Se accettiamo questo punto di vista, potrebbe risultare evidente che la fase attuale, iniziata un centinaio di giorni fa, consiste intanto nella sospensione del contesto di grave malattia in cui il sistema economico – sociale ha vissuto gli anni trascorsi.





Sembra di poter dire che la situazione fosse talmente marcia che soltanto un presidente non eletto e, soprattutto, completamente indipendente dalle dinamiche politiche potesse affrontarla con lucidità.





Ciò appare confermato dalla confluenza al governo di soggetti che si disprezzano e si odiano anche senza cordialità e rispetto.





Per mantenere la “parafrasi Beirut”, un Corpo di pace, ben armato e indifferente alle motivazioni di parte, ha dovuto assumere il controllo del territorio prima che i suoi rappresentanti lo distruggessero definitivamente.





Quella che stiamo vivendo è, dunque, una fase di ricomposizione che servirà a definire il volto profondo dell’Italia per i prossimi anni.





Naturalmente non è detto che l’equilibrio che si verrà a creare sia automaticamente positivo e condivisibile. Abbiamo diversi esempi nel mondo di nazioni e di popoli che trovano stabilità ed equilibrio in condizioni sempre meno democratiche.





La finanziarizzazione dell’economia favorisce queste esperienze. Nel momento in cui il profitto non viene più misurato sul successo del prodotto, ma sulle dinamiche finanziarie che ha precedentemente innestato, anche la natura degli obiettivi cambia e, con essi, la modalità di raggiungimento.





Una rilevante quantità di capitale, preso in prestito, sta avvicinandosi all’Italia.





La presidenza Draghi implica la assunzione di consapevolezza che tale disponibilità non potrà essere usata nei modi tradizionali e attraverso le tradizionali mediazioni para – politiche.





Ma gli apparati che ne sono preposti alla gestione sono stati formati, negli ultimi trent’anni, alla luce di criteri direttamente discendenti dalla crisi democratica tipica della II Repubblica.





Cosa farà, dunque, il nostro amatissimo Paese? Si rifugerà nel continuismo gattopardesco che ben lo caratterizza? Cercherà di resistere al medico impietoso che vuol fargli assumere una medicina amara e sgradevole? Si mobiliterà, come a suo tempo fece contro il riformismo socialista, preferendo rubacchiare in quel che rimane piuttosto che investire?





E cosa farà, quando scoprirà che quel denaro non arriva a pioggia nelle tasche di ognuno ma deve essere speso (e ben speso) prima di poter essere toccato?





Tutto sommato il bivio appare chiaro.





Ci viene chiesto di rinunciare (magari per sempre) a quegli aspetti di deteriore italianità che pure tanto ci divertono nelle chiacchiere al bar o in famiglia.





È un balzo in avanti come quello che l’Italia non fece alla caduta del fascismo. Allora alla volontà del Partito d’Azione di operare una netta cesura con il regime si contrappose, vincente, il continuismo togliattiano.





La classe dirigente diffusa scambiò il diritto di rimanere al potere con il “riconoscimento democratico” nei confronti del PCI. Gli ex fascisti (che avevano bruciato la camicia nera nel camino la notte del 25 Luglio) si dimenticarono del patto Molotov – Ribbentrop, dell’invasione della Polonia, dei separatismi titini e così via…





E, tuttavia, vi sono anche buoni motivi per ben sperare.





La dialettica riapertasi tra Confindustria e Organizzazioni Sindacali è un primo segno di ritorno a quella funzione centrale che ha la società civile in una realtà democratica. I bisogni e le istanze non vengono espressi attraverso una mediazione politica ma direttamente, affidando al Governo il compito doveroso di scegliere e decidere.





La magistratura, squassata da lotte intestine, non appare in grado di sostituirsi (come fece negli anni ’90) alle dinamiche politiche ed istituzionali. Forse, dopo tanto tempo, i giochi non si faranno più nelle aule dei tribunali e i vincitori non verranno proclamati a colpi di maglietto.





Ma, soprattutto, si può ritenere che esista un diffuso tessuto di imprese e di persone che sono consapevoli di come il loro interesse si collochi tutto sul fronte della modernizzazione e della sburocratizzazione dell’Italia.





È un tessuto formatosi e cresciuto “nonostante”, basato frequentemente sulle vere specificità italiane, interessato a confrontarsi con il mondo quanto ad avere una identità nazionale e a pretendere da essa difesa e riconoscimento.





A questa Italia un comico ligure fece credere che il nemico fosse la politica e che, liberandosene, tutti avrebbero visto tempi più lieti e fattivi.





Tra qualche tempo sapremo come sono andate le cose. Se Draghi riuscirà a proseguire il suo lavoro ci restituirà un Paese dove saranno inevitabilmente nate autentiche forze politiche capaci di una nuova dialettica con la società civile.





Se Draghi dovesse non farcela il tessuto economico e sociale dell’Italia verrà inevitabilmente divorato da dinamiche finanziarie superiori per potenza e continuità di azione.





Il mondo nato con la pace di Westfalia è morto. Con esso il suo motto “Cuius regio, eius religio”.





A noi italiani trovare nel nuovo le nuove ragioni di identità e speranza.



Moondo
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