Partiti in Pronto Soccorso: Le scadenti ragioni dei dualismi, le incertezze delle vie d’uscita

Viaggio nel Pronto Soccorso dei partiti politici italiani/5 - Conclusioni





Per consolidare una moderna democrazia servono partiti rigenerati e serve una riforma della politica che vale come un PNRR. Se non ora quando?





Il nostro “viaggetto” tra i partiti politici italiani immaginati nel “Pronto Soccorso” virtualmente creato nello schema del governo Draghi (due squadre non separate ma obbligate a intersecarsi: metà rappresentanti di partiti, i quali avrebbero il tempo per sistemare problemi di qualità politica e di reputazione, a cui sono affidate competenze sull’esistente; metà tecnici che riferiscono direttamente al premier che si occupano delle transizioni) ha avuto l’obiettivo di gettare uno sguardo, nell’agosto che segna la fine del primo semestre della “sperimentazione rieducativa”, ad alcune di quelle patologie, conclamate o celate.





Il “viaggetto” finisce oggi, dopo cenni fatti alla situazione di Lega, M5S, PD, Forza Italia e della galassia scomposta dei piccoli partiti liberal-democratici.





Non si è fatto in tempo a parlare della “sinistra senza aggettivi” (Art.1, LEU, Sinistra italiana, residui comunisti) e della “destra senza aggettivi” (oggi interpretata da una forza in costante crescita, FdI). Non perché “meno importanti” ma perché al momento meno esposti ai dualismi interni oggetto dell’indagine. Anche se, ora lo si può dire, contraddizioni potrebbero maturare in questi partiti collocati ai poli dello schieramento parlamentare. A sinistra, se il braccio di ferro tra Palazzo Chigi e la Lega dovesse produrre ulteriori concessioni a Salvini; a destra, se alla crescita elettorale non dovesse corrispondere un approdo a posizioni di reale potere (almeno territoriale) per effetto della doppia sostanziale esclusione in Italia e in Europa del partito di Giorgia Meloni.





Dunque l’oggetto principale dell’indagine, il dualismo endemico, ha riscontri nelle condizioni tattiche e strategiche del sistema dei partiti. Esso frena linearità, sincerità, coerenza ed energia costruttiva di tutte le forze in campo. E dipende largamente dal modello stesso in cui evolve il “far politica” sempre più attraverso il principio organizzativo del correntismo. Il correntismo non è una semplice concessione all’organizzazione del dibattito, ovvero alla legittimità del pluralismo interno. Appare - con rilievo crescente - come il prodotto della necessità di negoziare posti, incarichi e compensi non lasciandoli fiduciosamente nelle mani del leader di turno. Ma assicurandone la negoziazione attraverso rappresentanze organizzate che, rispetto al passato, vedono in questo aspetto la loro mission principale rispetto al presidio che una volta vedeva soprattutto ragioni di diversità ideale e programmatica.





Correntismo e taglio (economico) della politica





Il taglio dei parlamentari e la cancellazione della soglia di finanziamento pubblico dei partiti, cioè misure concepite all’origine come espressione di “moralità”, hanno assunto caratteri distorti che si riassumono oggi in tre patologie diffuse.





  1. L’iper professionalizzazione politica della nomenclatura e ha marcato di più l’autoreferenzialità dei gruppi dirigenti, marginalizzando in modo sistematico la presenza di società civile con una certa indipendenza e con utile autonomia culturale e professionale.
  2. Si è fatta pressante la necessità di assicurare compensi ad apparati che non avrebbero, in larga parte, titoli e competenze per assicurarsi altrove un buon lavoro e per assicurare ai dirigenti non eletti (o non più’ eletti) posti nelle tecnostrutture governate dalla politica, oggi invase dai raccomandati rispetto ad una certa libera selezione necessaria per garantire il meglio dei diplomati e dei laureati anche senza appartenenze.
  3. La costruzione stabile di blocchi negoziali (appunto le correnti) in cui le motivazioni valoriali (pur non scomparse) coprono alla fine in modo ipocrita le motivazioni professionistiche, è diventato un meccanismo che distorce spesso le condizioni del negoziato interno sulle decisioni politiche e legislative finendo per alimentare la parte cospicua delle ragioni dei dualismi (al minimo) di cui si è parlato.

Osserva Marco Damilano (L’Espresso di Ferragosto) che la misura del governo Letta di cancellazione del contributo finanziario pubblico ai partiti fu concepito quando partiti a trazione un po’ demagogica (Lega e M5S) accumulavano consensi più con le chiacchiere che spendendo soldi in strutture formate cercando di inseguire l’onda dell’antipolitica. Argomenti che pesano non solo sul bagaglio della frammentazione della politica ma anche sulla perdita di cognizione della funzione piena dei partiti stessi in una democrazia alle prese con i rischi del nostro tempo. 





I partiti “personali”





Un vero e proprio progetto per ridisegnare un modello di partito accettabile al fine di restituire qualità costituzionale ai partiti e al tempo stesso una riduzione significativa di queste patologie, non appare in campo.





Il dibattito, se c’è, è nelle facoltà di scienze politiche più che nell’agenda della politica rappresentata. Questa è la spia circa il rischio maggiore: quello di non utilizzare il tempo creatosi storicamente sulle attuali insufficienze di sistema per produrre rimedi e rigenerazioni per ora materia di propaganda superficiale.





L’unico modello di partito esistente che mitiga dualismi e correntismo accennati è per ora quello dei “partiti personali”, che trae origine nel successo del leaderismo proprietario esercitato nella cosiddetta seconda Repubblica da Silvio Berlusconi.





Questo genere di “modello” ha probabilmente evitato una ulteriore proliferazione degli alveari burocratici, ma ha determinato altre malattie, a cominciare da una inaccettabile trasformazione della “qualità democratica interna” sancita dalla Costituzione con atrofia delle discussioni e con la costruzione della cortigianeria al posto della meritocrazia. Così che, alla fine, si è visto spesso che doppiezze e dualismi diventano parte della conduzione non lineare del pensiero e del comportamento del capo. Insomma una figura proprietaria di tutto, anche delle patologie di sistema.





Tra i “partiti personali a rischio” si potrebbe includere anche la vicenda del Movimento 5 Stelle fondato da Grillo e Casalegno. Il braccio di ferro tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte, che ha portato all’armistizio del 6 agosto (il primo confermato garante con diritto di esprimere sfiducia, il secondo eletto presidente con un certo margine di manovra su dirigenza e apparato) ha introdotto qualche elemento evolutivo su cui è prematuro pronunciarsi anche perché l’evoluzione segnerà non solo le dinamiche tra i due contendenti-contundenti ma anche il ruolo del principale mediatore che è Luigi Di Maio.





In coda a queste osservazioni si permetta di fare anche cenno al testo che Giuseppe Conte ha affidato al Corriere della Sera il 13 agosto per parlare del “modello culturale” del suo partito. In verità l’inventario che l’articolo contiene per dimostrare il recupero dello spiazzamento culturale storico di Cinquestelle nel rapporto Sud-Nord e riguardo alla cultura di impresa ha qualcosa di scolastico. Appare piuttosto come una pezza a colore per entrare nelle alleanze di possibile successo alle amministrative soprattutto rispetto alle tre città più importanti in campo, tra cui Milano.





Tuttavia è doveroso far cenno a tre spunti autocritici che sono comunque parte di una fase nuova. 





  1. Considerare un errore la precedente prevalente linea di priorità di un certo meridionalismo assistenzialista.
  2. Ammettere di aver sottovalutato il dialogo con il sistema degli imprenditori e dei lavoratori settentrionali (rilanciando qui il contenzioso con la Lega). 
  3. Sostenere - in vista delle Olimpiadi invernali del 2026 - le ragioni di una “legge speciale per Milano” (locomotiva dell’Italia verso l’Europa) con cenni impliciti di autocritica riguardo a Virginia Raggi.

Il PD, se fosse…





Il 17 gennaio, su questo giornale, in una breve nota scrivevo un auspicio sull’evoluzione della natura e dei caratteri quasi paralizzati del PD. Questo il passo che ripropongo:





“Se il PD fosse un grande partito con la vista lunga, consapevole che questo è il momento di lasciarsi alle spalle gli impacci di ideologie ambigue, di difese di una “ditta” senza più giustificazioni, se fosse dunque un partito che prepara una ampia federazione progressista per lasciare a casa tanto la destra quanto i populisti, ebbene  prima di martedì metterebbe in campo qualcuno –  qualcuno di autorevole e rispettato – per dire, come il PD stesso in varie riprese ha detto, che il governo della pandemia ha avuto problemi e insufficienze, che la preparazione del Piano (in prima versione) è stata inaccettabile, che le critiche portate in modo serrato nell’ambito della maggioranza da luglio da Matteo Renzi, hanno avuto fondamento e che lo strattonamento ha messo in movimento decisioni bloccate”.





Nel convincimento che permane circa l’ineludibilità dello spazio politico che il PD occupa (ma anche dello spazio politico che il PD non vuole e non sa occupare) in ordine alla creazione di una “via di uscita” coerente con l’esperienza di sistema che l’Italia sta vivendo da febbraio nel quadro del governo Draghi, queste poche righe vivono tuttora, al di là delle contingenze che le ispirarono. Per questo confermo di restare in serio ascolto delle “voci di dentro” che il cantiere potrebbe liberare, sapendo tuttavia che l’inerzialità potrebbe far prevalere dissimulazione e ambiguità.





Margini di manovra





L’altro cantiere da cui si attendono evoluzioni – anche qui percependo il rischio del borbottamento frammentato – è quello trattato nell’ultimo articolo sul “centro che c’è e non c’è”.





Nell’opinione di chi scrive un più accentuato processo di riorganizzazione dell’area liberal-democratica riformatrice offrirebbe argomenti di cultura politica, storica e di attualità, per intrecciare meglio i destini italiani a quelli europei.





Ma, salvo sperimentazioni (per esempio, la convergenza alle prossime amministrative a Roma), un vero e proprio patto in questo senso è accennato ma per ora non tracciato e non scritto. Tra l’altro questo patto beneficerebbe del pur fragile posizionamento di Più Europa che resta tra i non molti partiti italiani che segnala un convinto attaccamento alla forma di partito democraticamente contendibile e territorializzato.





Questa stagnazione al centro non mette in adeguato movimento le conseguenze contigue a destra e a sinistra.





La scompaginazione del centrodestra, adesso più sovranista che liberale, potrebbe avere un riscontro anche dal possibile insuccesso di candidati improvvisati e inadeguati nelle prossime amministrative in alcune grandi città (Milano e Roma soprattutto). La revisione valoriale e organizzativa delle alleanze del PD nel centrosinistra ha bisogno di cambiamenti oggettivi che non riguardano solo quel partito, la cui evoluzione resta comunque indispensabile per le sorti del sistema. 





Ecco perché un certo margine di manovra potrebbe essere indotto da qualche sforzo in più del promotore del virtuale “Pronto Soccorso”. Parlo di Mario Draghi e, per evitare confusioni, dicendo subito che non dovrebbe essere nel segno di seguire le orme delle brevi parabole che hanno riguardato le nuove formazioni politiche generate da figure “cincinnatesche” che, come lui, sono state chiamate a Palazzo Chigi in situazioni di emergenza. In particolare Lamberto Dini e Mario Monti.





Lo sforzo in più dovrebbe restare all’interno della modello dialettico in atto tra le rappresentanze di partito e quelle tecniche all’interno di un governo che ridisegna molte cose dell’Italia prossima ventura. Ma se non arriva a ridisegnare anche un pezzo della democrazia politica (rivedendo norme e regole, cosa importantissima da elaborare guardando lontano non solo il proprio ombelico) molti degli sforzi progettuali ora in corso saranno vani. Questo richiede passaggi di una certa creatività, a cui si presta anche il calendario istituzionale in agenda (in Italia e in Europa) che qui non è il caso di scandagliare.





La contaminazione maggiore in atto tra le due compagini che compongono il governo tecnico-politico riguarda soprattutto (complice una certa qualità narrativa e di condivisione sociale che deve essere sostenuta e accelerata) l’idea forza delle prospettive assicurate al Paese dalla riuscita dei progetti ora in fase selettiva. Si deve capire che la riforma della politica conta per il nostro futuro quanto quella della giustizia, del fisco, della pubblica amministrazione oggi conta agli occhi dell’Europa. 





Questa contaminazione ha bisogno dello “stato di grazia” in cui agisce per ora il premier. Senza apparenti altre ambizioni, senza assumere in forma partigiana responsabilità di questa o quella parte. Ma esprimendo a fondo - quindi anche attraverso le parole della cultura politica - il ruolo di garanzia della modernizzazione di un Paese che ritrova il suo protagonismo europeo per convincimento e per convenienza. E rispetto a cui una figura come Mario Draghi - proseguendo tratti che furono anche di Carlo Azeglio Ciampi - potrebbe assegnare l’accompagnamento della riscoperta di un pensiero di tradizione dei tanti che hanno pensato democrazia, libertà, sviluppo ed equità dal Risorgimento in poi. Spesso inascoltati. Troppo dimenticati.





Riprendo questo auspicio da uno dei primi commenti “politologici” dopo la formazione del governo Draghi (e dopo il primo inquadramento del rapporto tra Draghi e i partiti) fatto da Gianfranco Pasquino (Domani, 26.2.2021): “Al governo del Presidente del Consiglio è stato affidato, più o meno opportunamente, anche il compito di ristrutturare la politica. Questa ristrutturazione potrebbe essere estesa (o ristretta) al sistema dei partiti”.





Una nota finale di contesto





Infine una nota di contesto obbligata per un paese come l’Italia, che in ogni suo rivolgimento ha visto il mondo attento e soprattutto influenzante.





Dall’instabilità che si è creata nel quadro delle contaminazioni tra partiti tradizionali e partiti populisti – una sorta di cambio di registro di fondo per un paese appartenente stretto al quadro dei fondatori UE e della Nato – è nato un compiacimento in paesi anche molto vicini e per questo molto concorrenti.





Questo quadro non è interrotto, ma è sospeso dal governo Draghi. Chi punta sulla perdita di valore politico dell’Italia al fine di produrre anche perdita di valore economico è alla finestra.





Questa è la ragione di fondo che dovrebbe muovere nei prossimi mesi Mario Draghi ad aggiungere alla sua, anche non dichiarata, agenda la promozione di misure per facilitare non solo le vaccinazioni e il PNRR ma anche la messa in sicurezza dell’Italia rispetto al fronteggiamento delle condizioni di instabilità.






I precedenti articoli





Viaggio nel Pronto Soccorso dei partiti politici italiani – di Stefano Rolando






Moondo
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