Parliamo di cibo

Una tavola rotonda di “Artisan Post” con Giampaolo Sodano, Mario Pacelli, Fabrizio Mangoni, Aldo di Russo, Leda Gaiuto, Lamberto Baccioni, Massimiliano Rossi.





GIAMPAOLO SODANO: necessario introdurre etichette "trasparenti"





Artisan Post è un laboratorio di idee in cui siamo impegnati a riscrivere le regole del gioco nel mondo dell’agroalimentare avendo come stella polare il diritto dei consumatori ad un cibo buono, sano e nutriente. Il luogo del cibo nella società contemporanea, ad est come ad ovest, è la Grande Distribuzione, cioè il supermercato. E quindi dobbiamo osservare con rigorosa attenzione cosa accade nel mondo della grande distribuzione perchè ciò è determinante nel rapporto tra prodotto e consumatore.





Sappiamo che il mercato è
regolato dalla domanda e dall’offerta. E sappiamo anche che domanda e offerta
non possono stare in un libero mercato senza regole. Il mercato va regolato, ma
le regole con cui oggi viene governato il mercato sono vecchie. E noi siamo
convinti che molte delle regole attuali non vengono cambiate perché funzionali
agli interessi dell’industria agroalimentare.





Faccio un esempio: per fare
l’olio di semi bisogna fare una farina di semi, per fare la pasta con quella
farina ci vuole un solvente chimico e si usa l’esano che è un noto solvente della
lavorazione del petrolio. L’esano viene quindi messo nell’olio di semi e lo
scienziato dice “ma che problema c’è? È una modica quantità”. Come la droga,
una modica quantità va bene, se tu l’olio di semi lo usi tutta la vita forse,
dopo tanti anni, a furia di modica quantità ti può venire anche un cancro.
Questo vale per tutto.





Secondo una ricerca condotta dal dipartimento di scienze biomediche della Georgia State University pubblicata sulla rivista British Medical Journal gli emulsionanti carbossimeticellulosa e il polisorbato 80 molto usati dall’industria alimentare e sono in grado di modificare il microbiota alterandone l’espressione genetica in modo da favorire i fenomeni infiammatori e la comparsa di sindrome metabolica. Queste due sostanze prese in esame da questo studio si possono trovare in molti alimenti perché si possono utilizzare nell’industria alimentare per aumentare la stabilità e la durata dei prodotti da forno, salse, creme e gelati.





Questo va di pari passo con le
abitudini del consumatore. “La strada è ormai una caffetteria a cielo aperto” è
stato scritto, il cibo esce dalle case e diventa paesaggio urbano spalancando
nuovi spazi e nuovi modi di stare insieme per un’umanità a banda larga. Si
mangia ovunque. Si mangia a casa, a ristorante, per la strada, si mangia
qualsiasi cosa e ciò che si mangia non si sa che cos’è.





Nel bel mezzo della quinta strada
di New York comprai un hot dog. Era buonissimo con il ketchup e salse varie: stetti
male un’intera giornata per quello che avevo mangiato. Sono passati tanti anni.
Un giorno acquisto un dvd in cui c’è un documentario realizzato da un regista
americano sul cibo made in USA in cui si vede il processo di produzione dei wustel:
maiali vivi e morti gettati in un gigantesco tritacarne da cui poi esce alla fine
del processo la pasta con cui si fanno i wustel. Non c’è etichetta al mondo che
racconta questa storia.





Le etichette sono opache, quando non sono oscure. Ci sono i valori nutrizionali e gli ingredienti, ma non il processo di produzione perché è lì che si nasconde il veleno. Su questo le industrie alimentari fanno la guerra civile perché nel processo di produzione intervengono una serie di solventi come quelli descritti prima, che hanno a che vedere direttamente con la salute del consumatore. Se ho un’allergia e compro un alimento che nel processo di produzione contiene una sostanza a cui sono allergica, io non lo so, compro quel prodotto, me lo porto a casa, lo mangio e sto male. Ma non so che dipende da ciò che ho mangiato perchè non so cosa c’è in quel prodotto.





Allora vogliamo mettere sotto
osservazione le leggi e le regole. Vediamo cosa si può cambiare. Ho fatto il
deputato della Repubblica e da quell’esperienza ho imparato come si fanno le regole
e ho visto come lavorano le lobby. Fuori della stanza della commissione, quando
il deputato Sodano usciva dalla commissione c’era il lobbista che diceva “Sodano
ci interesserebbe cambiare quella frase”. Le regole si fanno per essere
interpretate e a volte basta un inciso per interpretare una legge in senso
opposto alla legge stessa. Allora è necessario riscrivere le regole e riscriverle
in modo che quanti producono cibo non possano danneggiare la salute del
consumatore per realizzare un maggior profitto.





In questo contesto è chiaro che va favorito l’artigiano del cibo perché l’artigiano del cibo non usa solventi, non usa la chimica, è legato al territorio, alla storia, alla sua tradizione, alla sua qualità. E’ difficile che l’artigiano truffi il consumatore perché sul suo prodotto ci mette la faccia.





Io produco olio dalle olive.
Quando durante la campagna olearia i clienti vengono al frantoio per comprare l’olio
dicono “Sodano dammi l’olio buono, mi raccomando” e io rispondo “che problema
c’è? sta uscendo ora dal separatore, metteteci un bicchiere e bevetelo”. È un
prodotto naturale.





Gli industriali spagnoli, che
hanno grandi frantoi nel loro paese, e ci onorano della loro presenza sul
mercato con marchi di prestigio come Bertolli e Carapelli, imbottigliano l’olio
rettificato, corretto, deodorato che costa poco e che si trova al supermercato
a 2,49 euro la bottiglia.





A me costa cinque volte. Perchè
sono diversi i metodi di lavorazione nei campi e nel frantoio: loro raccolgono
alcune tonnellate di olive al giorno, che vengono accumulate e movimentate con
la pala meccanica. Dal separatore nel frantoio esce un liquido grasso maleodorante,
lo affidano ad un moderno sistema di deodorazione, lo correggono, lo mettono in
bottiglia, ci mettono una bella etichetta e via per i mercati del mondo. A
volte capita che arriva il procuratore della Repubblica di Torino e Carapelli
si prende una bella sanzione di 500mila euro per frode in commercio: ha venduto
un’olio vergine per extravergine di oliva. Ma il consumatore non lo sa. La
signora Maria ha guardato il prezzo.





Da un po’ di tempo a questa parte oltre al prezzo si legge anche l’etichetta. E allora se si legge l’etichetta noi dobbiamo iniziare a scrivere sull’etichetta il processo di produzione e le sue componenti chimiche in modo che la signora Maria legge e dice “ah questa è un olio che ha avuto un processo di produzione di deodorazione”. Se le piace lo compra, se non le piace il deodorato non lo compra. Cioè sceglie in modo consapevole perché informata. L’olio Cuore fa bene al colesterolo, è scritto sulla confezione. Devono scrivere “fa bene al colesterole e contiene l’esano”. Poi il consumatore sceglie: se gli piace l’esano lo compra.





Io faccio l’olio dalle olive e non
posso scrivere che fa bene al colesterolo. Olio Topazio può scrivere sulle sue
latte di alluminio “fa bene al colesterolo”. Non si cancella, non si sbiadisce,
non si strappa.





È noto che il famoso capomafia Messina Denaro ha costruito il suo impero in Sicilia attraverso il commercio di olio di oliva. Non con la droga, perché commerciare eroina, cocaina, è pericoloso, mentre se le forze dell’ordine trovano qualche tonnellata di olio in un container con documenti contraffatti male che va sequestrano il carico e applicano una sanzione. Le regole hanno una grande importanza per combattere la criminalità organizzata, per una completa trasparenza nella produzione industriale e per la difesa della salute dei consumatori. Questo è il compito che con Artisan Post ci siamo dati.





Abbiamo recentemente promosso una legge sull’olio d’oliva in Puglia, che riconosce all’art1 che l’unico vero produttore di olio è il frantoio artigiano, gli altri sono confezionatori, imbottigliatori. Gli agricoltori fanno le olive. L’unico vero produttore è il frantoio artigiano. All’art 2 dice che quello che fa l’olio si chiama mastro oleario e ha un albo professionale. Noi vorremmo che tutti coloro che fabbricano cibo avessero un albo professionale e una professionalità certificata perché il cibo non lo può fare chiunque.





Cibo sano? Il processo di produzione va riportato in etichetta.
Cibo sano? Il processo di produzione va riportato in etichetta.

MARIO PACELLI: processo di produzione in etichetta e qualifica di artigiano





Vorrei premettere che non sono
una persona molto esperta né di artigianato, né di cibo. Sono una persona che
in questi anni ha appreso tutto quello l’esperienza quotidiana può insegnare e
ha riflettuto su quello che mi hanno raccontato.





A partire da un lontano ricordo
di mia madre insegnante elementare che un giorno viene chiamata da un grande
industriale del cibo per fare lezione a una sua congiunta e mentre era lì a
fare questa lezione si vide portare dei biscotti. Credeva che quei biscotti
fossero quelli di produzione di quel signore, invece no. Quando lo chiese alla
ragazza, le disse che noi di quello che produciamo non mangiamo nulla.





Dobbiamo cercare di capire tre
cose:





  • cosa significava in Italia essere artigiani. Questo credo che è necessario capirlo per rispondere ad una domanda molto semplice. Chi siamo e dove stiamo, in che paese viviamo. Certamente c’è un dato di fatto che la grande industria italiana nasce in parte da investimenti puri e semplici, le banche e dall’altra parte nasce dallo sviluppo di aziende artigiane. Qui la prima riflessione: l’artigianato in Italia si salva dall’industria non per virtù propria ma perché non ci sono capitali per avviare subito la grande industria.
  • seconda riflessione: quando arriva il regime fascista l’artigianato cambia completamente connotati cioè non è più un qualcosa che debba essere salvato in qualche modo dal mare dell’industrializzazione ma un elemento identitario. L’artigianato in Italia è l’espressione dell’Italia. Finisce il fascismo e arriva il post fascismo con un partito, la democrazia cristiana che secondo la definizione degasperiana è un partito che dalla campagne muove verso le città con un timore: quello di essere sommerso dagli operai della nascente industria rinnovata in tutto il territorio nazionale. Quindi l’artigianato, insieme con i coltivatori diretti, diventano la grande forza che garantisce la centralità del regime politico.

Quando vengono meno sia la premessa finanziaria del capitale sia la promessa politica della garanzia di una formula politica, l’artigianato viene abbandonato a se stesso. La legge del ’74, la 445 è fatta di quattro articoli in tutto: l’artigianato non ci interessa, ci pensino le regioni.





Nemmeno per idea perché
competenze statali incrociate, sia la disciplina degli alimenti, sia la
disciplina delle professioni e altre, servono a costruire una specie di
scacchiera del potere regionale che per non creare problemi si adatti
semplicemente a regolare con norme regionali gli albi degli artigiani presso le
camere di commercio cioè a portare nell’area regionale le funzioni
amministrative statali, non quelle legislative.





Qual è la conseguenza di questo? E' che rimangono in vita le definizioni che erano state date nel 74 dalle imprese artigiane ma non esiste nessuna norma sul prodotto artigiano. Cioè apre il problema se spetta allo stato alle regioni però nell’apertura del problema ci è scritto che nessuno lo risolve.





Quindi, quali sono le caratteristiche
del prodotto dell’azienda artigiana? Nessuno lo sa. Perché non c’è nessuna
norma che lo proveda. E allora che succede? Succede che mentre da una parte
continuano gli artigiani a rimanere artigiani e a produrre necessariamente una
produzione circoscritta, c’è un’industria sempre più sofisticata che ha dei
laboratori di ricerca applicata che studia quali prodotti chimici usare per
realizzare nuovi prodotti con consumi molto spesso indotti dalla pubblicità e
senza nessuna preoccupazione dell’’uso delle sostanze sulla salute umana.





Perché? Perché basta stare nella gamma delle sostanze non vietate per cui tutto sia risolto. Ma nessuno dice, quali sostanze avete usato nelle lavorazioni? Cosa fa l’industria? Anche quando da i nomi delle sostanze naturali in realtà ha usato prodotti di sintesi. Esempio chi legge nell’etichetta acido citrico pensa al limone, arancio non sa che è un prodotto di sintesi. Chi legge sapore di fragola pensa che abbiano usato delle fragole ma non sa che è un sapore estratto da un particolare acero canadese.





Tutto questo meccanismo fa si che
da una parte ci sia una produzione industriale che usa sempre più largamente
quello che gli arriva come suggerimento dal laboratorio di ricerca e che serve
per mantenere il prezzo basso e poter contare su prodotti sempre più di massa
che appunto perché di massa gli garantiscono un bel guadagno. Dall’altra parte
c’è invece una produzione secondo vecchie regole scarsamente redditizia sia
perché non è in grado di competere sul prezzo sia perché non in grado di
competere sula quantità del prodotto.





Qual è la soluzione? A mio avviso ci sono 2 cose da fare:





- la prima, forse la più importante, è una normativa che costringa il produttore ad indicare tutte le sostanze impiegate anche quelle che sono state usate nel processo di produzione e poi si asseriscono eliminate prima della messa in commercio. Esempio, l’olio di semi non veniva prima prodotto se non in piccoli quantità. Finalmente c’è un signore che scrive una bella lettera a mussolini dicendogli “caro duce noi con l’olio di oliva in italia non ce la facciamo perché produciamo meno di quello che consumiamo però possiamo produrre a prezzi competitivi l’olio di semi attraverso un sistema che ha inventato un ingegnere tedesco e che io ho comprato”. Questo signore si chiamava Gaslini.





Questo progetto Mussolini lo passa a Acerbo che era il Ministro dell’agricoltura e a Bottai ministro delle corporazioni i quali mandarono a Mussolini due considerazioni opposte. Acerbo disse di non dare possibilità di produrre olio di semi poichè si ottiene per incendio della trielina aggiunta alla pasta di semi. Oggi non si usa più la trielina ma l’esano.





Bottai disse che quello era essenziale per lo sviluppo dell’industria. Mussolini dà torto ad Acerbo, vecchio barone abruzzese proprietario di terre che sapeva tutto e invece dà ragione a Bottai che era un teorico che non aveva tanta dimestichezza ma che però lo infastidiva talmente che quando diventò governatore di roma lo costrinse ad andare volontario in Africa orientale.





Perchè fu fatta questo tipo di operazione si è saputo solo in anni recenti, perché la Fondazione Gaslini scoprì che Gaslini aveva una contabilità doppia per cui una parte era quella apparente e un’altra era una contabilità nera dai quali traeva i cospicui finanziamenti al partito nazionale fascista. Anche qui non c’è nessuna novità .





Torniamo al nostro discorso. Il mercato è quello che si vuole che sia. Mauro Loy, che sa tutto sul mercato trionfale, potrebbe raccontarvi di come il mercato trionfale nasce già nella previsione di chi deve guadagnare e chi non deve. Allora, noi dobbiamo modificare il mercato con un sistema che implichi che il prodotto artigiano abbia una conformità alle regole del non uso della sostanza chimica. Come possiamo ottenere questo? Confartigianato a mio avviso, è una forza sufficiente perché arrivi a quello che nel 2006 non si riusciva a perseguire, cioè quando il ministero dello sviluppo economico finanziò federalimentari per ottenere un codice degli alimenti che stabilisca regole omogenee su come e che cosa, quali indicazioni ci debbono essere sugli alimenti a quali caratteristiche debbano corrispondere e in quella sede a quali caratteristiche devono corrispondere anche i prodotti artigianali. Questa è una grande cosa. Esistono varie pubblicazione di carattere privato, se prendete quella di Raffaele Guariniello chiamato codice degli alimenti che contiene tutte le norme anche in contrasto in materia con una giurisprudenza spesso contraddittoria vi rendete conto che se lo fa un magistrato che incrimina produttori che hanno barato le regole del gioco si vede che c’è effettivamente una lacuna da riempire.





- secondo: la legislazione
regionale. Qualificazione dell’artigiano.





Non possiamo continuare ad
accettare che non ci siano delle qualificazione dell’artigiano a seconda del
tipo di attività che è chiamato a svolgere nella sua azienda. I corsi professionali
così come struttura, le botteghe artigiani sono state il fallimento più
completo così come sono un fallimento gli accordi realizzati in sede di
conferenza delle regioni e che assegnavano ad ognuna la formazione di queste
professionalità. Non funziona il sistema e non funziona tanto più che la legge
dell’artigianato del 74 viene emanata con una normativa costituzionale che dice
che le regioni legiferano nell’ambito dei principi fondamentali stabiliti dalla
legge dello stato e la legge del 74 voleva essere proprio questo. Se non che
nel 2001 la costituzione è stata cambiato e l’artigianato non è più una
competenza ripartita ma una materia secondo alcuni di esclusiva competenza
regionale salvo la competenza dello stato a mantenere quelle griglie che sono
la salute, la libertà di concorrenza, la disciplina delle professioni ecc.





Quindi, c’è tutto da inventare.
C’è da inventare sia sulla qualifica di artigiano e dell’impresa artigiano, sia
sul prodotto artigiano nel quadro più generale di una normativa che riguardi
finalmente gli alimenti ed eviti le duplicazioni e le contestazioni
giurisprudenziali annotate da un magistrato che ha lavorato su questo tema.





Questo problema deve riguardare
non solo le aziende artigiane che producono e trasformano cibo, ma anche quelle
che distribuiscono il cibo perché non è possibile che approfittando di una
normativa favorevole tutti i bar di Roma siano diventati ristoranti perché
basta un forno a microonde e un acquisto di precotti. Se riscaldano i precotti
possono non avere la canna fumaria. Naturalmente questo è stato un grosso
veicolo per la camorra nel tentativo di impadronirsi dei luoghi della
ristorazione a Roma. Dobbiamo inventarci un meccanismo che qualifichi gli
artigiani del cibo anche per i ristoratori e vende cibo che deve garantire che
quel cibo è il suo e non è un precotto.





Questo si può fare. I tempi per
fare sia l’una che l’atra cosa sono maturi perché la gente che è meno pazza di
quello che sembra, comincia a voler capire quello che mangia e perché
consentitemi di finire con un mio dubbio: ci dev’essere pure una ragione per
cui i tumori dell’apparato digerente aumentano.





FABRIZIO MANGONI: non cedere al "terrore mediatico" sul cibo





Da anni racconto la storia del
cibo e sono convinto che il cibo oggi sia come un monumento che veicola una
storia profonda, antica. Attraverso una ricetta si può raccontare il paesaggio,
le influenze culturali, le storie, le guerre. Da anni faccio spettacoli in cui
racconto tutto ciò.





Poi una nuova recente esperienza:
ho acquistato 2 ettari di terra con un oliveto nel Cilento - comprati per
difendermi dal pericolo che costruissero abusivamente delle case - e produco
dell’olio partecipando ad una cooperativa.





La prima questione: lo scenario. Credo che noi operiamo in uno scenario di guerra, nel senso che sui social e in tv la mattina si vedono pentole e fornelli e la sera si terrorizza la gente. Questo è il gioco che si fa perché siamo assolutamente indifesi, non crediamo più a nulla. Quindi abbiamo una paura tremenda anche della cosa più semplice, ovvero ciò che ci mettiamo in corpo. Da qui nascono operazioni commerciali gigantesche, demonizzazioni commerciali.





Si comincia a dire che il glutine fa male e quando ci sono milioni di seguaci compare lo scaffale “no glutine”. In America tutti mangiano ebraico perché credono più al rabino che all’etichetta, anche se gli ebrei sono il 5% della popolazione, la quantità di gente che mangia secondo i principi della cultura ebraica è enorme. Sono forme di terrore mediatico che vengono costruite.





Abbiamo vissuto in Campania la
più grande guerra feroce che è stata fatta intorno alla questione della terra
dei fuochi: il 5% del territorio è stato investito dal fenomeno. Hanno fatto
l’analisi dei prodotti agricoli sulle discariche e non è uscito un veleno. Sono
state chiuse aziende perché usciva il cadmio che nei terreni vulcanici è
naturale. Ci sono dei veri eroi, la cooperativa sole che fa le fragole per l’Australia
e la Germania riceve centinaia di analisi, è il terreno più certificato del
pianeta e tuttavia è stato demonizzato. E la gente dice “ci sono i tumori”, i
tumori diminuiscono ma aumentano i morti di tumore. Su questo si è fatta
un’operazione di demonizzazione. Noi dobbiamo sviluppare la nostra riflessione
partendo da questo tipo di prodotti.





Il cibo come cultura, raccontare il cibo. Alla città della scienza stiamo facendo un progetto con le scuole che si chiama “la buona merenda” nel tentativo di cominciare a fare capire come pane e pomodoro sono meglio della cosiddetta merendina.





Dobbiamo educare al sapore. Mi occupo molto di pasticceria e i miei amici pasticceri dicono che l’industria vuole tenere i pasticceri nell’ignoranza. Ed è così. Invito a gustare una crema pasticcera tradizionale, non si trova più.





Noi facciamo degli eventi in cui facciamo vedere come in tre secondi si può produrre una crema pasticcera collosa, orrenda e come in 15 minuti posso fare una crema buona e profumata. La gente deve imparare. I nostri ragazzi non sanno più che cos’è la crema pasticcera oppure come si fanno quelle glasse di cake prodotte con sostanze americane gommose, collose che danno vita a prodotti mostruosi.





Quindi, credo che ricordare la tradizione
e riportarla in vita sia una questione essenziale.





Nelle etichette siamo obbligati a
scrivere che cosa c’è che fa male ma non ciò che fa bene. E’ una pazzia.





Una questione che dovremmo
affrontare in un nostro prossimo incontro riguarda le risorse del territorio e
l’uso che ne fanno le aziende di trasformazione. Una larga parte dell’industria
ignora la produzione del 75% del territorio italiano che è la collina e la
montagna. Per esempio i trattori sono fabbricati per la pianura.





Così come c’è il problema delle
pratiche agricole. Dobbiamo mettere in campo forme di educazione, per esempio
si ara il terreno se e quando serve, si ara il terreno sotto l’ulivo per
interrare i fertilizzanti ma se metti i fertilizzanti sotto la pianta cresce
l’erba e non l’ulivo. E intanto continuiamo ad usare i diserbanti e così
facendo impoveriamo il terreno e inquiniamo le falde acquifere.





ALDO DI RUSSO: la salvaguardia della modernità passa attraverso la lotta alle fake news





Forse darò
l’impressione di voler partire da troppo lontano per affrontare il tema
dell’artigiano e dell’industria, ma per me le due forme che hanno rivoluzionato
l’organizzazione dell’uomo sapiens a partire dagli ultimi 500 anni di
evoluzione sono stati: il pensiero scientifico come metodologia di approccio
alla ricerca e al significato dei dati e lo stato di diritto come
organizzazione che l’uomo si è dato contro l’assolutismo del potere. Sembrano
lontani dai nostri argomenti di conversazione di oggi, ma sono meno distanti di
quanto non si creda.





Il metodo
scientifico prevede che i dati e le relative teorie ricavate da ciascun
esperimento siano posti in discussione e verificati da organismi certificati ed
indipendenti prima di poter essere dichiarati. La scienza produce e certifica
quello che in buona fede considera il punto più avanzato della conoscenza
possibile fino a che una nuova evidenza sottoposta alla stessa metodologia non
spieghi in modo completo qualche cosa in più. Questa scienza produce poi la
tecnologia come applicazione pratica di quei principi. 





Lo stato di
diritto per conto suo, quasi coevo nella sua formulazione attuale alla nascita
della scienza moderna, prevede che i poteri legislativo esecutivo e giudiziario
siano indipendenti l’uno dall’altro, non esiste nessuno, nemmeno il monarca,
che possa essere sottratto alla legge. Anche la legge è soggetta a cambiare
come ogni teoria per l’uomo, appena le condizioni della sua applicabilità o il
contesto sociale cambi fatti salvi i principi fondamentali dello Stato, quelli
per intenderci da Italiani, che sono riportati nei primi dodici articoli della
nostra Costituzione.





La scienza e
lo stato di diritto sono diventati i punti fondanti di quella che chiamiamo
“modernità” e che oggi è messa in discussione dal suo superamento.





In realtà è dalla Firenze dell’Umanesimo che i principi di questa modernità cominciano a generarsi, la scuola neoplatonica riunisce i sapienti intorno al pensiero, sono loro che costruiscono la civiltà del rinascimento che accende poi la modernità. Nascerà la scienza, la città moderna porterà l’uomo al centro della produzione industriale e l’artigiano considerato dai greci un sottoprodotto capace solo di utilizzare le mani diventa un principe intorno al quale coalizzare le menti, le azioni, l’arte che sola è in grado di parlare ai popoli diversi della terra e a trasmettere i suoi messaggi alle generazioni future. Se questo ragionamento vi sembra troppo semplicistico e schematico avete ragione, ma per raccontare degli anni in cui l’artigiano diventa un punto fondamentale dell’economia di un territorio occorre capire che questo coincide con gli anni in cui le necessità dell’uomo vengono prese in considerazione dalla società. È questo che chiamiamo modernità, il lungo processo finale di una trasformazione che dal mondo delle idee come catarsi dell’uomo diventa “caritas”, comune bisogno di procedere insieme.





In questo mondo la fiducia verso gli altri acquista un significato diverso da quello che poteva avere nel nostro antenato del Pleistocene, in balia della natura e delle sue leggi, la fiducia era calcolata su un pericolo o una possibilità di ritorsione immediata e reale, ci si fidava di un aiuto alla sopravvivenza o si fuggiva un predatore mentre oggi si è costretti a fidarsi di principi totalmente astratti e di cui spesso non si conosce nemmeno il minimo indispensabile. È facile dire “non mi fido”. Io, per esempio sto scrivendo queste note battendo sulla tastiera di un computer che non ho la più pallida idea di come funzioni. Ho fiducia nel fatto che quando i miei pensieri saranno compiuti potrò inviare al direttore queste note per la pubblicazione attraverso una rete di cui ignoro le funzioni più elementari ( così non sarebbe per un piccione viaggiatore).





Ieri ero in aereo tornando da Atene e leggevo tranquillo solo grazie alla fiducia che naturalmente avevo nei confronti del pilota e di tutto lo staff di ingegneri che prima del volo e a terra in quel momento stavano tenendo d’occhio l’andamento del volo. Lo stesso ciascuno di noi potrebbe dire del proprio smartphone o della bottiglia d’olio che il frantoio di fiducia ha appena incartato per noi. Senza fiducia nelle capacità degli altri saremo ancora cacciatori raccoglitori e non sapiens evoluti intorno ad una civiltà. D’altra parte non bisogna commettere l’errore di pensare che il frigorifero o la risonanza magnetica siano sempre esistiti e nemmeno pensare che siano una evoluzione naturale, sono il risultato del fatto che la scienza e le conseguenti ricadute tecnologiche hanno studiato e compreso come funzionino i meccanismi dei processi naturali e abbiano sviluppato dei saperi e delle abilità per migliorare benessere e aspettative.





Vi sembrerà strano ma in un’epoca ad alto tasso di innovazione tecnologica la fiducia è diventata uno degli aspetti più importanti intorno a cui ruota tutta la vita civile. Se oggi abbiamo un farmaco che sconfigge la malattia X è solo perché qualcuno ha potuto studiare i meccanismi attraverso i quali questa si sviluppa e mettere a punto delle contromisure efficaci. Questo processo non è una evoluzione naturale, ma il risultato di una cultura che è riuscita a dominare la natura costruendo una civiltà, una cornice di regole e di leggi all’interno della quale manifestare la libertà, chiamandola così e non arbitrio, l’unica garantita da scienza e diritto che formulano le regole e i precetti con una cognizione di causa.





Ricordo una
conversazione registrata per conto del Padiglione Italiano dell’Expò 2015 con
il presidente dell’Istituto Zooprofilattico di Portici che, oltre alla
istituzionale attività di laboratorio della salute pubblica svolge
continuamente opera di sensibilizzazione e didattica nel territorio, Il Prof
Antonio Limone con una appeal napoletano che ricordava da vicino molti del
personaggi eduardiani mi disse: “noi non certifichiamo sapori, ma solo la
salubrità dei prodotti che trovate sugli scaffali”. Ecco un principio etico
straordinario, ecco l’oggettività di un marchio che poi troverà nel mercato e
nel gusto la sua diffusione, il suo successo o il contrario rispetto alla
concorrenza, ma che parte da un minimo comune denominatore sociale: la difesa
della salubrità dei prodotti quando l’artigianato e l’industria entrano nel
mercato alimentare. L’artigiano convive con l’industria, anzi all’inizio
dell’era moderna la genera e impara a riconoscersi in determinati valori,
rispettare determinate regole, accettare il controllo costante della qualità dei suoi prodotti, poi arriva il
profitto che non demonizzo affatto, ma che non può stravolgere le regole e non
può creare stati di coscienza collettiva che siano basati su dati scientifici
falsi e manipolati.





Oggi sappiamo bene dalle scienze cognitive quale ruolo abbiano le emozioni nella formulazione di un giudizio morale, in poche parole la pancia sceglie e può influenzare la ragione, immaginate quanto questo conti in un mondo non più moderno ( post) in cui il relativismo mette sullo stesso piano discipline scientifiche e imbonitori da mercato. Medicina e omeopatia, astrofisica e astrologia, con argomentazioni a cui forse gli anziani razionali come chi scrive sono immuni ricordando “il latinorum” con cui lo scaltro Don Abbondio tentava di spiegare al povero Renzo per quale motivo “il matrimonio non s’ha da fare”. È lo stesso inganno comunicativo con il quale si combattono i vaccini, si da credito alle tesi di Vanoni su Stamina (poi arrestato per altro), si sono messi al bando gli OGM in Italia distruggendo la ricerca che vedeva il nostro paese tra i primi al mondo attraverso informazioni false, mai provate (alcune di provata malafede con espulsione dei ricercatori fedifraghi dalla comunità scientifica come avvenuta a Napoli). Un interesse economico ha costruito una campagna fatta di suggestioni, paure poggiate sul nulla. Ricordo una discussione nella quale contro gli OGM si sosteneva come il mais ogm fosse sterile e che i semi andassero acquistati ogni anno. Certo, il mais è sterile perchè ibrido non perché è ogm, ibridato affinché sia forte rispetto alle intemperie ed alle malattie, OGM o no se è ibrido è sterile. Quel mais è come il mulo, chiedetelo agli alpini che senza mulo non avrebbero mai vinto la loro guerra sul Piave, eppure questo argomento circolava nei salotti e sulle pagine dei giornali come argomentazione scientifica contro la scienza.





Questo è il nostro problema, costruire persone in grado di formarsi una coscienza e saper esprimere giudizi morali attraverso forme di ragionamento o attraverso la fiducia che nella scienza e nella tecnologia si ha. La salvaguardia della modernità passa attraverso la lotta alle fake news che non è proibizione, ma condivisione di giudizi basati sulle opinioni esperte.





Perché faccio questo discorso
complicato? Perchè ho paura che l’artigiano stia morendo solo perché è morta la
modernità,
l’artigiano scomparirà quando sarà morto del tutto l’umanesimo. La parola
d’ordine non è “prima gli italiani”, ma prima la qualità, il buon gusto e l’attenzione
alla “caritas”; alle persone come soggetti membri di una comunità e non agli
individui monadi in grado di badare solo a se stessi.





LEDA GALIUTO: la salute si preserva innanzitutto con una buona e sana alimentazione





Più che medico sono un’artigiana
della medicina.





Nell’ultimo congresso cardiologico a Roma, tutte le sessioni di lavoro che parlavano degli anticoagulanti orali erano strapiene mentre quelle dedicate al cibo e alimentazione erano deserte. In questo senso mi considero un’artigiana della medicina perché sono convinta che la salute si preserva innanzitutto con una buona e sana alimentazione, e più in generale con un corretto stile di vita. Per stile di vita intendo un insieme complesso di regole che hanno come obiettivo lo stare bene mentre per l’alimentazione il modello ideale è la dieta mediterranea che vuol dire non solo mangiare frutta, verdura, pasta, bere un buon bicchiere di vino, usare olio extravergine di oliva e ridurre al minimo la carne ma fare anche una continua attività fisica.





Alla mensa del Gemelli sulle
etichette delle bottiglie d’olio è scritto “olio di origine comunitaria”,
quindi le etichette sono utili per farci sapere cosa contiene quella
confezione. Ma non è sufficiente: è necessaria una maggiore informazione,
dobbiamo cioè fare in modo che il consumatore abbia un bagaglio di informazioni
sul prodotto tali da consentirgli di decifrare in modo corretto quanto è
scritto in etichetta. Mi piace il concetto di metterci la faccia perché è un
rapporto fiduciario tra produttore e consumatore, che è come il rapporto
medico-paziente.





Il cibo è espressione di una
attività umana e l’artigiano del cibo esprime una creatività umana.





PACELLI: si stanno ridefinendo i
livelli essenziali delle prestazioni: non ritiene possibile ancorare i livelli
essenziali delle prestazioni anche alla alimentazione nei luoghi di cura?





GALIUTO: ritengo questo una cosa
fondamentale, mi dà l’occasione per approfondire un problema. Noi medici siamo
scarsamente formati sulla nutrizione. Ho voluto dare un mio contributo
scrivendo il mio libro sulla salute del cuore che passa anche attraverso
l’alimentazione ed ho quindi iniziato a confrontarmi con i nutrizionisti
sentendo l’esigenza di studiare, approfondire questa tematica e per questo sto
conseguendo un master. Tutte le nuove conoscenze che sto acquisendo non passano
assolutamente attraverso gli studi di medicina. Tant’è che uno dei progetti di
ricerca che vorrei portare avanti nella mia facoltà è quello di fare una
valutazione sullo stile di vita degli studenti utilizzandoli come volano di
informazioni e di cultura. Siamo classe dirigente nella misura in cui
conosciamo e siamo capaci di promuovere la salute dei cittadini. Studiare la
biochimica è un conto, ma applicarla è un altro. Facciamo un esame di
farmacologia complessivo, ma nessuno parla dei nutrienti, di come si combinino
insieme e come ci si deve nutrire. Questo patrimonio non c’è nella cultura
medica, figuriamoci se ci può essere nelle istituzioni. Tuttavia credo che il
cittadino abbia assolutamente il diritto di avere un medico che conosce questa
materia, in grado cioè di fare una diagnosi e prescrivere una terapia specifica.





PACELLI: la cosa più assurda è
che mentre l’industria introduce negli alimenti sempre più elementi di sintesi
nell’industria farmaceutica si cerca sempre di più di utilizzare nei medicinali
non sostanze di sintesi ma sostanze tratte dai prodotti naturali





GALIUTO: è parzialmente vero.
Posso dire che è quello che mi chiedono spesso i pazienti. Per esempio “posso
non prendere la statina e mangiare il riso rosso?”. C’è questa tendenza ad andare
verso il naturale, ma non ci sono ancora tutti gli elementi, gli strumenti per
dire a chi dare fiducia.





Il settore della comunicazione
dell’alimentazione è pieno di imbonitori, di ricercatori che parlano di
nutrizione. Cosa sta accadendo? L’industria cerca la tua faccia per promuovere
i suoi prodotti non naturali. È necessario resistere alle tentazioni per garantire
la propria dignità e credibilità professionali, cioè la propria faccia, che vuol
dire conservare il valore dei nostri studi e il nostro patrimonio culturale.





LAMBERTO BACCIONI: l’artigiano deve avere la patente, deve essere competente





Nel mio lavoro mi sono sempre
occupato degli aspetti tecnici e scientifici e su questi posso portare un
contributo alla discussione. L’esperienza mi dice che il prodotto alimentare ha
due facce: una l’emozione, l’altra l’interesse. La faccia tecnica viene
manipolata da coloro che hanno l’interesse a gestire l’emozione, l’altra gestisce
l’aspetto economico nel proprio particolare interesse. Il mercato del cibo si
presta a tutto questo. Internet si presta a tutto questo, dà mezze informazioni
vestendole di qualcosa di verosimile. La mia esperienza di lavoro in questo
settore mi consente di verificare la distanza fra l’informazione sul prodotto e
quello che conosco di quel prodotto.





Credo che nella nostra attività
dobbiamo riportarci sempre più possibile agli aspetti tecnici lasciando gli
esperti della comunicazione liberi di usare l’emozione per ottenere lo scopo
che si prefiggono.





Spinti da aspetti emotivi superiamo
gli aspetti razionali, tecnici, scientifici e ci incamminiamo verso “orizzonti
di gloria”. Qualche volta consapevoli di farlo per un nostro interesse,
talvolta inconsapevoli per assecondare richieste di chi ci vuole condurre per
mano. Per esempio il famoso discorso degli ogm: ho sentito il prof. Veronesi
dire che gli ogm fanno male e mi sono domandato se anche lui fosse un
imbonitore o uno scienziato che mi sta dando un’informazione controcorrente per
farmi aprire gli occhi.





Il mio contributo può essere
quello di produttore di hardware e quindi tralascio l’aspetto emozionale. Credo
che il più utile alleato del nostro sforzo sia il consumatore perché è colui
che è alla ricerca di informazioni che lo tranquillizzano e la dimensione
produttiva dell’artigiano è per il consumatore tranquillizzante. Lo vede come
un amico, come qualcuno di famiglia. E siccome lo vede in questo modo pensa che
l’artigiano faccia le cose nel comune interesse. Tuttavia sappiamo che non esiste
messaggio tranquillizzante se non viene mantenuto dal prodotto che viene
offerto. Quando l’artigiano bleffa cercando di spacciare una cosa per un’altra
compromette la sua credibilità che è l’unico vestito che l’artigiano può
mettersi addosso e che si basa su due fattori: onestà e competenza. Cioè la
credibilità è il prodotto della onestà per la competenza.





Il messaggio che vogliamo dare è che il prodotto sia tecnicamente corretto, esauriente, e tale da essere gestibile. Poi deve essere proposto al consumatore da un professionista credibile. Quando si parla di qualità dobbiamo sapere che questa non ha nessun riferimento ad uno standard di valore, perché la qualità è, a mio giudizio, semplicemente la soddisfazione delle attese del consumatore sul prodotto.





Se devo produrre una certa qualità devo sapere che è il consumatore che mi definisce qual’è il suo standard di qualità, ed io gliela devo produrre sempre uguale, sempre perfetta e con la garanzia. Facciamo un esempio: diciamo che il “Bel paese” è un formaggio di qualità mentre il “pecorino di fossa” non è di qualità: è buonissimo ma non è di qualità perché il produttore non sa come controllare un costante standard di qualità. Ho degli amici che fanno dell’olio spettacolare, gliene chiedo per i miei convivi e me ne faccio mandare otto perché il mio amico non sa fare lo standard che gli chiedo.  Gli artigiani, se devono entrare nel mercato, devono farlo nell’ottica di gestire il loro prodotto in termini di controllo della qualità che significa controllo dello standard qualitativo che il loro cliente ha definito per il loro prodotto o che loro gli hanno promesso.





Per imparare a fare un lavoro con
questo obiettivo bisogna guardare l’industria, perché l’industria sa fare
prodotti di qualità, sempre della stessa qualità. Ricordo il “mateus rosè” che
ha sempre lo stesso tono di rosa e lo stesso profilo aromatico: quando andai a
visitare la fabbrica nel 1978 avevano una cantina che lavorava come una
farmacia, controllavano tutte le fasi del processo di produzione, per ottenere
sempre lo stesso prodotto con le stesse caratteristiche.





Non è vero che l’artigiano è buono di natura. L’artigiano deve avere la patente, deve essere competente. I produttori che sanno raccontare il loro prodotto, ma l’artigiano del cibo deve saper fare il prodotto con le caratteristiche che sono state promesse al suo consumatore.





Nel settore dell’artigianato non
c’è formazione di base. Prendiamo ad esempio il settore dell’olio d’oliva: la
maggior parte dei frantoiani non ha alcuna preparazione di base e questo è uno
dei problemi perché non basta aver avuto il padre artigiano o sapere cosa
faceva il nonno. Oggi bisogna affrontare queste professioni tradizionali mettendosi
in testa che per essere vincenti bisogna fare sistema, essere formati e preparati,
saper gestire il proprio ruolo all’interno del mercato.





MASSIMILIANO ROSSI: il prodotto deve effettivamente avere i requisiti di qualità promessi





Appartengo alla categoria di
coloro che entrano in scena in una seconda fase, ovvero i manager della grande distribuzione.
Credo di essere nel giusto se affermo che si deve sempre partire dal prodotto,
artigianale o industriale, perchè è la professionalità del produttore la chiave
di tutto e da questo punto di vista condivido l’intervento di Lamberto Baccioni.





Una parte fondamentale del mio lavoro è quella di andare a visitare le industrie, quei fornitori che ci forniscono i prodotti che mettiamo a scaffale. Le industrie non sono tutte multinazionali, e non sono il demonio, così come non possiamo affermare che l’artigiano sia sempre garanzia di qualità. Il mondo della produzione agroalimentare è molto variegato: ci sono tante piccole imprese che sembrano industriali perchè agiscono soltanto sul processo di trasformazione, così come ci sono artigiani che sono diventati industriali per motivi di economia di scala, perché sono cresciuti.





In definitiva nel settore
agroalimentare ci sono molte diverse tipologie di impresa, ma è giusto
osservare che abbiamo anche molte aziende che sono dei veri e propri fiori
all’occhiello. Abbiamo imprese che hanno laboratori dove si fanno centinaia di
analisi e controlli, dove si trasforma la materia prima in linee di produzione asettiche,
dove esce il prodotto finito senza l’intervento umano, quindi senza contaminazione
batteriologiche. Sono d’accordo con Baccioni, non possiamo pensare che siccome quel
determinato prodotto lo fa l’artigiano è buono per definizione. L’artigiano, se
non conosce determinati processi produttivi, se non utilizza determinate
tecnologie non è in grado di garantire la salubrità del suo prodotto.





Detto questo, se si arriverà ad avere una nuova normativa che qualifica e definisce le caratteristiche del prodotto artigianale, la GDO è già oggi pronta a valorizzarlo. Oggi c’è una voglia di prodotto artigianale, nel senso di prodotto di alta qualità e quindi basterebbe avere i prodotti e metterli a scaffale. Quello che fanno certe catene come CONAD, con Sapori&Dintorni, non è altro che individuare piccole imprese che da sole non avrebbero la forza per arrivare sugli scaffali, e dargli la chance di raggiungere il grande pubblico.





Piccole imprese legate al territorio che hanno determinati requisiti di qualità, portare il loro prodotto sullo scaffale e dargli quella visibilità che altrimenti non avrebbero, questo è un compito che la GDO è in grado di assolvere perché è coerente con la sua funzione di servizio. Abbiamo un grande mercato che ben organizzato fa guadagnare tutta la filiera. La filiera può essere più ricca se può contare sul prodotto artigianale perché oggi il consumatore è disposto a spendere di più di fronte ad una offerta di qualità. E’ compito della GDO tutelare tutta la filiera, non solo noi che mettiamo il prodotto a scaffale, ma tutelare l’impresa produttiva che altrimenti non avrebbe la forza di arrivare al consumatore, né la forza per restare sullo scaffale. Quindi la GDO in questo svolge un ruolo di garanzia sia per il produttore che per il consumatore. Poi la GDO dovrà sicuramente fare cultura e comunicazione ed aiutare a divulgare il discorso della qualità dei prodotti.





C’è il mercato, c’è l’interesse della distribuzione di renderlo sempre più ricco di prodotti e c’è un consumatore che chiede una offerta sempre migliore. Ma bisogna arrivare al cliente con una promessa che dobbiamo mantenere, non parole e sola pubblicità, ma qualcosa di concreto, un cibo sano ad un prezzo equo. Il prodotto deve effettivamente avere i requisiti di qualità promessi. Se diciamo “il prodotto è buono perché è artigianale” commettiamo un grave errore perché il prodotto è buono e sano se ha una determinata qualità; se riusciamo anche a connotarlo come artigianale, ben venga, ma la garanzia che lo è effettivamente non ce la può dare una etichetta su cui è scritto che quel prodotto lo ha fatto l’artigiano, ma una rigorosa normativa che ancora oggi non c’è.





SODANO: vorrei concludere questa discussione dicendo che non stiamo dando vita al partito degli artigiani e la produzione artigianale non è la soluzione di tutti i problemi. Così come conveniamo che l’industria agroalimentare non è il male, ma i suoi prodotti possono far bene o male al consumatore a seconda di come vengono fatti. In ogni caso siamo d’accordo che è necessaria una normativa più stringente e una maggiore e completa informazione sulle materie e sulle sostanze usate nel processo di produzione.  







Moondo
https://moondo.info/parliamo-di-cibo/

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