Mario Pacelli e Luigi Mazzella analizzano il voto europeo: le loro conclusioni
In questo articolo proponiamo l'analisi del voto europeo dei Professori Pacelli e Mazzella, punti di vista differenti che ci aiutano a comprendere meglio quanto avvenuto ed i possibili scenari futuri. Il confronto di idee è alla base del nostro giornale, ringraziamo pertanto i due autori per i preziosi contributi.
Di Maio, Savonarola e Sancho Panza - di Mario Pacelli
Quando una consultazione elettorale riguarda 28 paesi e più
di 400 milioni di persone, come è avvenuto domenica scorsa, è riduttivo
focalizzare l’attenzione sui risultati elettorali di un solo paese: occorre
guardare ad essi, ma anche a quelli complessivi ottenuti in Europa dalle varie
forze politiche, comprese quelle anti sistema come ad esempio i neo nazisti
austriaci.
Se pensiamo che esistano (?) politicamente anche loro e che
Orban, il premier ungherese ed il suo partito, non sono poi molto diversi,
viene quasi spontaneo concludere che per i liberal democratici non è andata poi
tanto male.
I partiti cosiddetti “sovranisti” nelle varie significazioni
del termine, contrari ad una Unione Europea con poteri sovrannazionali, hanno
avuto buoni risultati complessivi ma non sono riusciti a prevalere: al
parlamento europeo costituiranno una forte (e probabilmente rumorosa) minoranza
ma non avranno posizioni di governo nell’Unione. A governare saranno ancora
popolari e socialisti, questa volta insieme ai liberali euroscettici (l’articolo
di Mazzella va ricondotto a quest’ultima corrente politica).
Salvini e compagni, per quanti alleati possano trovare,
resteranno dunque fuori dall’uscio delle istituzioni europee a protestare, ma
quanto a decidere dovranno accontentarsi di poco più del diritto di Lisbona.
Per il grande Matteo sarà probabilmente difficile gestire il suo successo
elettorale in Italia: ha ottenuto molti voti in cerca di identità politica, più
di protesta che adesione ad un programma che non va oltre il potenziamento
delle autonomie locali, annegando per il resto in un mare di promesse
irrealizzabili, di cui dovrà dar conto ad un elettorato molto fluido.
Per i pentastellati il discorso è ancor più complesso: la
loro sonora sconfitta elettorale ha dimostrato che la forma movimento, in
antitesi a quella di partito, può reggere solo a breve termine: la mancanza di
un programma politico serio, l’assenza di una pur minima capacità di gestire
gli obiettivi parziali realizzati, a partire dal reddito di cittadinanza, il moralismo
alla Savonarola, il frate domenicano che alla fine fu bruciato dai suoi stessi
seguaci mostrano dopo poco tempo la corda e gli elettori fanno correttamente
altre scelte.
Difficile che i pentastellati si riprendano dalla batosta,
dovranno scegliere tra accettare i ricatti della Lega per continuare a
governare o provocare una crisi di governo alla quale seguirebbero nuove
elezioni da cui la loro rappresentanza politica uscirebbe dimezzata con un
futuro di governo molto incerto. Sarà una scelta difficile: Di Maio dovrà
scegliere tra il saio domenicano di Savonarola e la divisa da scudiero di
Sancho Panza.
E’ probabile che i suoi amici politici decidano di
continuare l’alleanza con la Lega almeno fino a quando non abbiano elaborato un
caso per provocare una crisi di governo che abbia anche un rendimento
successivo sul piano elettorale.
Il PD ha ottenuto un buon successo ma deve ancora
riguadagnare le posizioni perdute: ci vorrà molto tempo ed un programma molto
più articolato ed omogeneo di quello con il quale si è presentato alle elezioni
di domenica scorsa. Zingaretti farà il possibile ma non è detto che ci riesca.
Staremo a vedere: resta comunque il fatto che Salvini ha dimostrato finora di essere molto generoso non pretendendo come Mussolini dopo le elezioni del 1924 di divenire Presidente del Consiglio, lasciando uno “strapuntino” ai popolari. Matteo ha rassicurato gli alleati pentastellati di volerli ancora suoi colleghi di governo, compreso Toninelli, il più grando statista italiano dopo Cavour: tanti auguri!
Mario Pacelli
Le ipotizzabili conseguenze del voto Europeo - di Luigi Mazzella
Si ritiene comunemente che un discorso senza “se” e senza “ma” sia esemplare per chiarezza e determinazione di chi lo propone. Senza smentire la validità dell’asserzione, vorrei provare a dimostrare che una chiacchierata utile sull’Europa del dopo-voto possiamo farcela proprio utilizzando le due particelle indicate. Incomiciamo dai “se”.
SE i cosiddetti “sovranisti” avessero vinto, il ricompattamento del mondo Occidentale sarebbe avvenuto perché l’Europa Continentale avrebbe probabilmente seguito l’esempio della parte Anglosassone, parametrando la sua politica economica a quella coraggiosamente intrapresa dagli Stati Uniti di Donald Trump e timidamente seguita dalla Gran Bretagna di Theresa May. E cioè:
- avrebbe chiuso i propri confini, senza ascoltare sollecitazioni inadeguate e fuori luogo di chi dovrebbe avere a cura gli interessi delle anime dell’intero Universo (campo della morale) e non occuparsi degli affari interni dei singoli Stati che devono provvedere alle cure della polis (terreno esclusivo della politica);
- avrebbe contrastato l’ingerenza di “misteriose” organizzazioni non governative (dagli occulti finanziamenti) di intromettersi nelle vicende di Stati sovrani, condizionandoli nella scelta dei mezzi più adeguati per difendere la polis, la res publica, la cui salus avrebbe costituito, secondo l saggezza latina, la suprema lex;
- avrebbe rivisto i principi obsoleti di una liberalismo d’antan che ha formulato le sue regole quando gli Stati autoritari o dittatoriali non avevano ancora alterato le leggi della concorrenza, immettendo nel Mercato prodotti ottenuti a basso costo per l’imposizione di salari di fame agli operai e avrebbe opportunamente e giustamente ripristinato dazi doganali a difesa dei propri prodotti e a sostegno di un’attività industriale che non deve sentirsi obbligata a “delocalizzare” i propri opifici – che danno occupazione e benessere alla Nazione - per mantenersi in piedi senza il sostegno interessato degli Istituti di credito.
- si sarebbe posto, seguendo la strada tracciata dagli Stati Uniti d’America e dalla Gran Bretagna l’obiettivo importantissimo di recuperare la sua libertà d’azione soprattutto economica e avrebbe “fermato” lo strapotere delle centrali finanziarie del mondo, che da un bel po’ di tempo spadroneggiavano in tutti gli Esecutivi dell’Occidente.
Proseguiamo con i “ma”.
MA, il voto europeo, intervenuto dopo una campagna elettorale caratterizzata da scambi di epiteti che intendevano essere ingiuriosi ma risultavano soltanto stupidi (è immaginabile un europeo che non sia europeista?) ha peggiorato soltanto la situazione della Unione che già non era idilliaca. Il risultato, pur non andando certamente nella direzione sperata dai sovranisti (è chiaro che essi non avranno la forza parlamentare sufficiente per modificare l’assetto normativo e pattizio vigente) non ha certamente soddisfatto le aspettative dei cosiddetti europeisti.
Cristiani, Socialisti, con l’appendice dei Liberali (che sembrano avere rinunciato a ogni loro identità per essere solo caudatari dei due partiti maggiori, che, per inciso, con il liberalismo, per diversi ma non contrapposti fideismi e fanatismi hanno veramente poco a che fare) non potranno prescindere dal difficile rapporto con i popolari di Orban, dopo il successo da lui ottenuto in Ungheria.
La conseguenza di tutto ciò che il risultato elettorale ha determinato potrebbe essere che, paradossalmente, potrebbe risultare accelerata la fine della Unione Europea, così come oggi è costituita e configurata. E ciò – ecco l’altro “ma”- in una maniera che potrebbe dimostrarsi ben diversa e meno soft rispetto a quella “sognata” dai riformisti.
Le exit saranno, infatti, le uniche strade percorribili per chi non vorrà vedere, avendone acquisito consapevolezza, il proprio Paese:
- morire di povertà crescente per la scarsa competitività dei suoi prodotti a fronte di quelli degli altri colossi produttivi mondiali (di cui, pure, molte Nazioni Europee facevano parte, prima dell’Unione);
- subire immigrazioni selvagge e sottostare ai diktat delle Banche che, attraverso i tecnocrati di Bruxelles, impediranno (per effetto degli obblighi del pareggio di bilancio e di non sforamento del 3%) ogni forma di investimento e di ripresa economica. In altre parole, se qualche Stato-membro dell’Unione ritiene di poter rientrare, in condizioni politiche meno asfittiche e costrittive, nel novero delle grandi potenze produttive del mondo, non avrà altra via d’uscita che quella indicata dagli Stati Uniti d’America e dalla Gran Bretagna.
Con lacrime, sudore e sangue… (ecco l’ultimo “ma”) ma con la soddisfazione di ridiventare pienamente arbitro del proprio destino.
Certo. Si dovrà fare tesoro dell’esperienza del Regno Unito di Gran Bretagna che, affidato alle cure di una gentildonna priva di carisma e di adeguata determinazione politica, è stato ostacolato dalle “volpi” di Bruxelles in ogni modo; tale da suscitare la sana reazione degli Inglesi che hanno decretato il successo di Farage, un uomo senza complessi d’inferiorità verso i poteri finanziari di Wall Street e della City.
In conclusione: non è difficile immaginare ciò che avverrà di qui a breve. I Paesi più decisamente euroscettici (idest: più scettici verso la politica dei tecnocrati di Bruxelles, negatrice di ogni sviluppo economico non legato alla politica monetaristica delle Banche) scalpiteranno ancora di più, alimenteranno il clima di “Disunione Europea”e tenteranno di uscire non isolatamente ma in vere e proprie“cordate” per non essere schiacciati dagli gnomi della Finanza.
Negli altri, meno consapevoli dei rischi che corrono, la lotta politica sarà sempre più cervellottica e acefala: si muoverà su falsi binari che conducono allo scontro senza creare alcuna condizione per la ripresa. Il Bel Paese, con il voto espresso, sembra attestarsi nel primo gruppo. Vedremo.
Luigi Mazzella
Moondo
https://moondo.info/mario-pacelli-e-luigi-mazzella-analizzano-il-voto-europeo-le-loro-conclusioni/
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