Non cambiare, basta un maquillage: intervista a Claudio Velardi

I socialisti superano il marxismo con il "Vangelo" firmato da Bettino Craxi. La reazione del PCI è durissima: l’accusa è tradimento. Era furore ideologico o legame con l'URSS?





Certamente c’era, nella reazione, quella presunzione di “superiorità morale” che il Pci si portava dentro, animato da un originario, cieco furore ideologico. E, forse, un legame residuale con l’URSS faticoso da spezzare, anche se negli anni ‘80 era abbastanza allentato. Ma credo, più prosaicamente, che il fattore determinante in tutte le polemiche tra il Pci di Berlinguer e il Psi di Craxi, dall’inizio della sua segreteria, fu il fatto che il Pci comprendeva che il nuovo corso craxiano avrebbe potuto togliergli spazio, avrebbe potuto contrastare a viso aperto quella egemonia culturale e organizzativa che il Pci aveva costruito nei decenni precedenti, e che operava a tutti i livelli della società: nelle organizzazioni di massa, nei media, nell’accademia, tra gli intellettuali. Questa era la Grande Paura che spinse il Pci, dalla fine della solidarietà nazionale, ad arroccarsi invece che ad aprirsi, e a concepire il rapporto con il Psi in termini di resistenza alla modernità, spiegata con l’uso di un’antica categoria - il tradimento - che a sinistra ha sempre avuto larghissimo spazio.





Il PCI di Berlinguer: partito di lotta e di governo. Invoca l’occupazione operaia della Fiat mentre fa l’accordo con Moro e Andreotti per un governo di compromesso storico. Oggi come la Lega o come i 5 Stelle?





Con la morte di Moro la strategia del compromesso storico prese un colpo decisivo. Da allora il PCI dell’ultimo Berlinguer rifluì su posizioni estremiste e settarie (anche per la concorrenza del PSI, che cominciava ad avere una sua presa in una società che stava fortemente cambiando). Progressivamente il PCI “di governo” venne meno, pur mantenendo posizioni di forza nelle amministrazioni locali. Gli anni ‘80 furono gli anni di una lunga decadenza, fino al crollo del Muro e alla nascita confusa e ambigua del PDS. In quella ultima fase forse Craxi avrebbe potuto fare di più per favorire un’alleanza tra PCI e PSI. E’ una pagina, questa, ancora da riempire. Perché Craxi rinunciò a proporre al PCI un percorso di convergenza se non di unificazione? Pensava che la crisi del PCI fosse di portata tale da potere ricevere in dote “naturaliter” i suoi elettori? Poi le cose hanno preso, come si sa, altre strade, ma la domanda resta. Infine, sul parallelo con la Lega o il M5S: certo che il PCI, nell’arco della sua storia, è stato un grande contenitore capace di proteggere dentro il suo involucro spinte che poi sono diventate sovraniste o populiste. Già in epoca Bossi qualcuno parlò della Lega come di “una costola della sinistra”. E oggi c’è chi a sinistra pensa di realizzare un’alleanza strategica, strutturale con i Cinquestelle. La verità è che una parte di quel vecchio elettorato, soggiogato da un’ideologia poi morta, va sempre in cerca di nuove visioni palingenetiche. Non si rassegna a fare i conti con la società fluida e moderna in cui siamo tutti immersi.





Di fronte alla rivoluzione digitale in cui ciascuno “fabbrica” la propria informazione c’è il rischio di perdere le libertà fondamentali, c’è un pericolo per lo stato democratico?





La rivoluzione digitale è assoluta e irreversibile. E, a mio avviso, entusiasmante. Di fronte ad essa, lo Stato democratico, con le sue procedure, la sua rappresentanza tradizionale, le sue regole di convivenza, deve essere rifatto dalle fondamenta, rinsecchendosi e devolvendo poteri verso l’alto e verso il basso. Verso l’alto perché oggi i grandi temi (democrazia, libertà, sicurezza, ambiente) si affrontano solo a livello globale. E verso il basso, perché la vita quotidiana dei cittadini deve essere fatta sempre più di autodeterminazione, di contatti ravvicinati con i decisori a livello locale. Detta così può sembrare un’affermazione forte, ma io penso che il futuro non sarà dello Stato nazione, una stazione intermedia nella riorganizzazione del potere che sta perdendo ineluttabilmente forza e centralità.





La pausa imposta dal governo repubblicano di Draghi potrebbe essere per la sinistra un tempo di rifondazione? È ancora utile la cultura socialdemocratica riformista a questo scopo?





Sinceramente non so bene che valore attribuire oggi alla parola sinistra. Se si tratta di difendere i più deboli, bisogna stabilire innanzitutto dove sono i deboli. Sono nell’insediamento tradizionale della sinistra? I deboli oggi sono i pensionati, gli impiegati pubblici, gli insegnanti? No di certo, perché queste grandi categorie sono state protette dalla sinistra, hanno realizzato nel XX secolo conquiste importanti, e oggi tendono a conservare e a conservarsi, non a battersi per il cambiamento. La sinistra, se vuole continuare ad essere - e ad essere percepita - come forza di cambiamento, dovrebbe misurarsi con altri soggetti, loro sì effettivamente i ”deboli” di questo momento storico. Sono i riders o gli schiavi del computer costretti a lavorare per pochi euro al giorno, o le aree di marginalità culturale delle periferie. Soggetti che però - e giustamente - rifiutano di essere organizzati secondo modalità tradizionali, dentro i sindacati per esempio. E’ di questi giorni la notizia che i lavoratori di Amazon, negli Stati Uniti, hanno rifiutato l’ingresso del sindacato in azienda. Io non penso certo che i lavoratori non debbano essere tutelati, ci mancherebbe altro, ma organizzazioni storiche come i sindacati non rispondono più alle esigenze della società contemporanea. Da questo punto di vista la cultura riformista è un metodo sempre e costantemente utile per affrontare i problemi di gestione di una qualunque società. La tradizione socialdemocratica penso appartenga ad una storia gloriosa, ma che non sia più attuale. A meno che non sia rivista profondamente. 





Enrico Letta, antico democristiano, fedelissimo di un Andreatta tenacemente anticomunista, è la persona più adatta per la rimodulazione di un partito che affonda le sue radici storiche ed elettorali nel PCI?





Il PD è uno strano partito: una fusione a freddo, un “amalgama mal riuscito” come qualcuno ha detto. Le sue radici storiche sono smagliate e incerte: nel suo Pantheon convivono figure diversissime, da Togliatti a La Pira, da Berlinguer a Moro, e così via. Quanto alla sua base elettorale, è evidente che ha ancora una presa residua nelle vecchie regioni rosse, ma sono insediamenti che si vanno smarrendo, perdono forza, finanche per ragioni anagrafiche. Direi che oggi il cemento del PD si trova altrove, in realtà: e cioè nella sua consuetudine con il potere. Malgrado la cosiddetta seconda repubblica sia stata etichettata in prevalenza come “berlusconiana”, e malgrado il centrodestra risulti costantemente maggioritario nell’elettorato, il PD (prima il PDS-Ds) ha governato grosso modo, direttamente o attraverso governi tecnici, per almeno 18 degli ultimi trenta anni. Ed è evidente a chiunque che il PD è il partito cui fanno riferimento le alte burocrazie statali, gli apparati locali, i corpi intermedi, il mondo dell’associazionismo. E’ insomma in Italia il partito del potere (che io non considero affatto una brutta parola, perché lo ritengo consustanziale alla politica). Ma il potere è per definizione conservatore: chi ce l’ha non vuole perderlo, per questo è refrattario ad ogni innovazione. La vera natura attuale del PD è questa: è un partito conservatore, che non vuole cambiare gli equilibri economici, sociali e culturali esistenti, se non per piccoli ritocchi. Da questo punto Enrico Letta forse è la persona giusta a guidare il partito in questa fase. Lui non è certo un rivoluzionario, è un moderato. La base del partito, di qualunque derivazione sia, gli chiede di vincere le prossime elezioni, e lui cercherà di farlo. Tutto potrebbe sopportare il PD, tranne che una collocazione strutturale all’opposizione. Lì si, finirebbe per sfaldarsi.



Moondo
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