La politica estera di Gianni De Michelis

In un momento in cui il mondo politico italiano sembra impegnato in un continuo discutere di Europa e dei suoi trattati, spesso ignorandone storia e contenuti, il testo della relazione di Giuseppe Scanni, svolta al Teatro dei Servi a Roma in occasione della giornata organizzata dalla Fondazione Pietro Nenni e dalla Segreteria Generale della UIL, in ricordo dell'onorevole Gianni De Michelis, può risultare particolarmente utile a rimettere a posto i tasselli di una storia che rischia di finire fuori strada (NdR).





Se, come spero, il tempo futuro ospiterà altre iniziative – questa volta di studio ed approfondimento - sull'analisi della politica estera pensata, sviluppata e coordinata da Gianni De Michelis, ben altro di quello odierno sarà lo spazio che dovrà essere dedicato all'approfondimento di un tema tanto vasto quanto lo fu il bisogno culturale, ovvero razionale ed assieme sognatore, dell’intellettuale socialista al servizio della Repubblica, che volle trasformare la sua venezianità in spazio planetario di azione.





Oggi, come è giusto, sarà bene concentrarsi su un periodo
cruciale della storia contemporanea che coincide grosso modo col triennio che
vide Gianni alla Farnesina; non dimenticando, è ovvio, quanto il suo impegno
governativo come ministro delle Partecipazioni statali, del Lavoro e di vice Presidente
del Consiglio abbia lasciato un segno più che evidente nella politica europea
ed estera dell’Italia.





Vi è per tutti un momento magico nella vita, dura un tempo indeterminato: un attimo, settimane, un tratto d’anni. È il tempo senza misura, che occupa lo spazio del ricordo comune e vivifica quello proprio. Quel momento liberò in De Michelis la energia creatrice di un modello di attività che ancora oggi affascina la diplomazia italiana.





Gianni De Michelis
Gianni De Michelis




La tradizione, mai rinnegata nella Prima Repubblica, e
qualche volta dimenticata in quelle strane procreazioni costituzionalmente non
assistite che si sono autodefinite Repubbliche Seconde, Terze o Seconde bis, riservava
l’incarico di ministro degli Esteri quasi sempre ad un ex Presidente del
Consiglio o, comunque, ad un riconosciuto leader parlamentare. Fu il caso di
Saragat e di Nenni.





L’età stessa dei ministri degli Esteri obbligava i
sottosegretari ad un importante lavoro fuori dal paese. De Michelis, con un po’
di scandalo iniziale dell’alta gerarchia, intese invece il suo lavoro come
quello di effettivo “capo della diplomazia”.





La sua diretta partecipazione a riunioni, incontri anche
informali, divenne presto proverbiale e la capacità di districarsi tra dossier
complessi e diversi fu presto vista con ammirazione e compiacimento dai governi
mondiali, segnatamente quelli europei.





La lingua inglese praticata da De Michelis era essenziale e
comprensibile, con grande gioia dei suoi interlocutori, che non dovevano
percorrere labirintici percorsi intellettuali per capire cosa intendesse il
capo della diplomazia della sesta potenza mondiale.





Se, apparentemente, il pragmatismo demichelisiano non
aggiunse novità nella politica estera italiana, come era stata disegnata prima
da De Gasperi e poi col centro sinistra da Fanfani/Moro e Nenni/Saragat e
Craxi, indubbiamente Gianni ha caratterizzato fortemente il suo impegno
governativo per metodo, efficacia e competenza.





Accompagnando, molti anni dopo il suo impegno ministeriale, De Michelis nel Kuwait, ebbi modo di constatare quanto fosse rimasta invariata, dopo la guerra del ’90- per la quale molto si era speso per assicurare la partecipazione italiana - la simpatia, l’interesse e la gratitudine per l’Italia e per la sua personalità non soltanto dell’emiro sovrano, ma in generale del gruppo dirigente politico ed economico dell’area. Senza la mediazione di fini linguisti gli interventi del già ministro ed al momento presidente dell’IPALMO, furono assai apprezzati per la chiara indicazione di una politica che già all’epoca si poneva il problema della scommessa sostenuta dal manifesto ideologico del liberalismo, redatto da Fukuyama, secondo il quale il trionfo della democrazia liberale rappresentava con la “Fine della Storia” il mantenimento esclusivo e “perpetuo” del “Museo della Storia dell’Umanità”, dove il calcolo economico, la soluzione tecnica dei problemi, compresa quella dei bisogni sofisticati dei consumatori, avrebbero sostituito la lotta ideologica universale, il coraggio, l’audacia e l’idealismo.





Quel lettore e studioso vorace che era De Michelis aveva
individuato, in un poco letto paragrafo del saggio The End of History and the
Last Man, pubblicato in italiano come “La fine della storia e l'ultimo uomo”,
un messaggio sfuggito ad alcuni. Fukuyama sosteneva, infatti, che «questa (fine
della storia) non implica in alcun modo la fine dei conflitti internazionali in
quanto tali. A questo proposito, infatti, il presente contributo dovrebbe
essere diviso tra parte storica e parte post storica. I conflitti potranno
continuare a esserci tra Stati che “sono ancora nella Storia” e stati che “sono
arrivati alla fine della Storia”».





A Kuwait City, in una terra tanto ricca quanto poco abitata,
al centro di una rete di reti economiche, finanziarie, tribali, che
strategicamente interessano l’equilibrio del mondo, De Michelis, campione di
metodo e competenza, si pose il problema di come l’unipolarismo avesse bisogno
di quadri regionali di coordinamento in dialogo continuo fra loro per disinnescare
la mina dei conflitti fra Stati “dentro” e  “fuori” la Storia. Pensandoci oggi scorre un
brivido nell’immaginare la catastrofe ventura terrorista e finanziaria prevista
da De Michelis, seppur tutti fossero allarmati dopo gli attentati dell'11
settembre 2001, che avevano aperto la strada alla guerra al terrorismo, in
assenza di una strategia globale e multilaterale.





Già, multilaterale. Il che ci porta a riflettere su una
perfetta, continua, adesione di De Michelis alle linee guida della politica
estera italiana, multilaterale, europeista, strettamente atlantica nella
Difesa, logicamente coordinata con la politica estera statunitense e molto
attenta alla Germania, con la quale Roma ha condiviso molto più di quanto ha
legato il nostro paese alla Repubblica francese.





Tra il 1989 ed il 1992, nel terzo e quarto governo della X legislatura, il mondo fu agitato da eventi straordinari: la rivolta dei paesi baltici, la crisi polacca provocata da Solidarność; la caduta della cortina di ferro al confine austro-ungherese , quando la doppia barriera di filo spinato, che per decenni era stata il simbolo della tensione e della diffidenza tra Est e Ovest, fu smantellata il 3 maggio  a Hegyeshalom, Koeszeg, Ohszeg, Szentgotthard e Sopron, lungo i 345 chilometri di frontiera tra Austria e Ungheria; l’abbattimento del muro di Berlino; ed ancora, sempre nel 1989, il primo dicembre, Gorbaciov incontrò Giovanni Paolo II. Nel corso di quell’incontro, l’Unione Sovietica e la Santa Sede posero la prima pietra per avviare relazioni diplomatiche. Le elezioni parlamentari in Romania del 1990, il 20 maggio. Si trattò della prima tornata elettorale dell'era democratica, organizzata a poco più di cinque mesi dal successo della rivoluzione romena del 1989; le prime elezioni libere dal 1946 in Cecoslovacchia, che si tennero nel giugno 1990, senza incidenti e con più del 95% di affluenza alle urne.





Sempre nel 1990 la riunificazione tedesca - resa possibile dall’abbattimento
del Muro di Berlino e dall'inaspettato progetto in tre tappe lanciato dal
cancelliere Helmut Kohl pochi giorni dopo quello storico evento - permise di
rilanciare l'idea di Unione europea.





Il presidente francese François Mitterrand temeva la
ricostruzione di una Germania forte e militarizzata e fu tra i promotori di
un'accelerazione dell'integrazione europea che legasse ineluttabilmente il
governo tedesco in un'Europa integrata.





È da questo momento che occorre fissare l’attenzione sulla
cavalcata potente e veloce che il ministro degli Esteri De Michelis impose ad
una Europa occidentale ancora sotto choc per il susseguirsi degli avvenimenti
che, paese dopo paese, liberava popolazioni intere dal giogo pesante della
dittatura e della miseria.





Nel Consiglio Europeo straordinario di Dublino del 28 aprile
1990 fu rilanciato formalmente l'impegno alla edificazione di un'Unione
politica europea. Il secondo Consiglio di Dublino, questa volta ordinario, si
tenne nel giugno successivo e si decise, in quell'occasione a maggioranza, di
convocare una nuova Conferenza intergovernativa (CIG), come quella che aveva
approvato l'Atto unico europeo nel 1987, che avrebbe iniziato i lavori a
dicembre, sull'unione politica. Tra il luglio e il dicembre 1990 la presidenza
di turno passò all'Italia.





Il secondo Consiglio europeo di Roma, presieduto da De
Michelis, si aprì il 14 dicembre per discutere sui rapporti che i Ministri
degli Esteri avevano elaborato in merito all'Unione politica. Vennero raggiunte
fondamentali decisioni in merito al rafforzamento dei poteri del Parlamento
europeo, alla cittadinanza europea, al principio di sussidiarietà, all'area
comune di sicurezza e giustizia. Il mandato della CIG era così definitivamente
precisato attraverso quella che fu poi definita la politica dei Tre Pilastri.





De Michelis annotò immediatamente e riferì al Presidente
Andreotti, a Cossiga ed a Craxi che la CIG sull'unione politica era dominata da
un’alta confusione di proposte: la Commissione europea proponeva che l'Unione
si sostituisse alle Comunità esistenti e fosse titolare della politica estera e
di sicurezza; Francia e Germania appoggiavano l'ipotesi federalista e premevano
per accelerare la difesa comune trasformando l'UEO nel braccio armato
dell'Unione, sempre in ambito NATO; Regno Unito e Paesi Bassi si opponevano
all'idea preoccupati di un indebolimento dell'Alleanza atlantica; la Spagna in
un memoriale sollecitava il rafforzamento delle politiche economiche di
sviluppo proponendo un aumento sostanziale dei fondi strutturali per garantire
uno sviluppo effettivo delle regioni meno avanzate. Il governo spagnolo
sottolineava quindi la necessità di pensare più all'integrazione economica che
a quella politica.





Poi, giusto per aiutare, il presidente di turno, il premier lussemburghese Jacques Santer, presentò - senza apparenti consultazioni formali - un progetto di Trattato che egli stesso definì di compromesso, col quale proponeva che la futura Unione europea fosse composta di “tre pilastri”:





  1. la
    Comunità europea: avrebbe inglobato CECA, CEE e CEEA.
  2. in
    Politica estera e per la sicurezza comune il progetto Santander sostenne più le
    idee anglo-olandesi che quelle franco-tedesche in materia di difesa.
  3. gli
    Affari interni e giustizia divennero un pilastro a sé stante.

Santer non intendeva rinunciare all'idea di una futura
Europa federale, parola che ritornava in un testo ufficiale per la prima volta
dagli anni cinquanta. Fu proprio questo elemento, probabilmente, a portare la
successiva presidenza di turno olandese a presentare a sorpresa un secondo
progetto di Trattato, quando quello di Santer era stato considerato il punto di
partenza imprescindibile per la discussione. La struttura a tre pilastri veniva
sostituita da un totale incorporamento delle nuove politiche nella CEE, mentre
veniva esclusa qualsiasi autonomia federalista in campo difensivo, in quanto la
sicurezza europea sarebbe rimasta parte delle strategie della NATO. Il progetto
non ottenne l'appoggio dei principali Paesi europei – tra cui l'Italia – ed
ebbe vita breve: il disegno di tre pilastri veniva così fissato.





Per un lungo momento si profilò la possibilità di un
fallimento della CIG e l’inizio di un drammatico indebolimento delle strutture
europee proprio, quando le nuove democrazie dei paesi dell’Est reclamavano
aiuto economico e sostegno politico.





Era giunto il momento del coraggio e dell’inventiva. Tutti
riconobbero all’Italia e specialmente a chi guidava la squadra diplomatica, De
Michelis il grande merito di aver trovato la strada per uscire dall’impasse. De
Michelis guadagnò così un suo posto nella storia europea e dell’Occidente.





È riconosciuto che senza il lavoro di De Michelis, sostenuto
da Genscher, a Maastricht il 9 dicembre 1991 lo storico Consiglio europeo non
avrebbe dato vita al nuovo Trattato.





De Michelis non era affatto convinto della eccellenza del piano lussemburghese, ma dimostrò le sue straordinarie doti di pragmatismo e in accordo con il ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher (un’autentica istituzione germanica, ministro degli esteri ininterrottamente dal 1974 al 1992, con una piccola pausa di due settimane nel 1982) preferì appoggiare, migliorandola, la proposta dei Tre pilastri piuttosto che allontanare ulteriormente la sempre difficile unione politica europea.





Nella prima giornata furono sciolti gli ultimi nodi
sull'Unione economica e monetaria: entro il 1º gennaio 1999 si sarebbe avviata
la terza tappa del calendario, con l'introduzione della moneta unica. Più
difficile fu superare l'opposizione britannica a questa soluzione e sulle
questioni sociali. Venne sancita così la clausola di opting-out attraverso la
quale la Gran Bretagna sarebbe potuta rimanere nella futura Unione europea pur
senza accogliere le innovazioni che il suo governo avesse rifiutato. Nasceva
così per la prima volta l'idea di un'Europa a due velocità. Una idea, quella
della doppia velocità che anni dopo sarebbe stata usata a piene mani da Chirac
e Amato nel Consiglio di Nizza (presidente della Commissione essendo Romano
Prodi).





Per la PESC (politica estera e di sicurezza comune), venne
accolta la volontà “futura” di costituire una difesa comune e si stabilì che
sulle decisioni di politica estera generale sarebbe rimasta in vigore la regola
dell'unanimità, “salvo” adottare la maggioranza per le “decisioni di
applicazione”.





Chiusi in tal modo i negoziati, il 7 febbraio 1992 fu
firmato, sempre nella cittadina olandese, il Trattato sull'Unione europea che
da allora sarebbe stato noto come Trattato di Maastricht. Esso comprendeva 252
articoli nuovi, 17 protocolli e 31 dichiarazioni.





L'Unione europea così creata veniva edificata sui Tre
pilastri del progetto Santer, limati e modificati dal lavoro diplomatico. Un
“pilastro “fu più saldo degli altri, quello noto come "Comunità
europea" (CE, in sostituzione della CEE), l'unico a carattere federale
rispetto agli altri due – sulla PESC e sugli affari interni – di carattere
intergovernativo. L'Unione dispone di un quadro istituzionale unico in quanto
le sue istituzioni sono comuni a tutti e tre i pilastri; oltre a quelle
canoniche, venne ufficialmente riconosciuto il Consiglio europeo come organo di
sviluppo politico.





L'Unione europea restava tuttavia una struttura anomala in
quanto priva di personalità giuridica e di risorse proprie, a parte quelle
della CEE di cui tuttavia non avrebbe potuto disporre.





De Michelis capo della diplomazia italiana, uomo di metodo e
di enorme dispendio di energie e di intelligenza era, secondo gli americani, “effective”,
“efficace”; secondo i britannici, che un poco lo invidiavano, era "flamboyant”,
fiammeggiante.





Nonostante il suo noto e preveggente interesse per la Cina,
dedicò la maggior parte della sua attività da ministro a tre aree: a) il Nord
Ovest, l’Unione Europea, e gli USA; b) il Nord Est, con particolare riferimento
alla Quadrangolare; c) il Mediterraneo.





Fu un politico scomodo ma leale e come tale ben considerato
da alleati veri e amici presunti.





Mai dimenticò di legare l’interesse nazionale, ed europeo, a
quello della sua terra, che amò profondamente.





Ricordo che per anni ha sostenuto che il «ruolo europeo del
Friuli Venezia Giulia è attualmente pari allo zero», dove ”attualmente” è una
figura meramente retorica, che io stesso ascoltai prima del 1989 e ben dopo il
2000.





Già alla fine degli anni '80 De Michelis giudicava che il
Friuli Venezia Giulia era, doveva essere, il "centro nevralgico d'Europa”.
Per De Michelis troppe occasioni erano state sprecate rispetto alle possibilità
offerte prima e dopo l’abbattimento del muro di Berlino.





«Allora pensavamo a una prospettiva straordinaria per il
Nordest italiano, che ritenevamo essere destinato per natura a diventare il cuore
della nuova Europa – spiegò De Michelis -. Il giorno dopo la caduta del Muro
firmammo quel Quadrangolare la cui efficacia si è oggi ridotta a un Ince
(iniziativa centro europea) che non è che una pallida raffigurazione delle
potenzialità racchiuse nel progetto di allora».





Sin dalla fine degli anni ‘70, racconta De Michelis, era
nata l'idea di un asse Barcellona-Trieste-Kiev. «Ma anche di quell'intuizione -
prosegue - si è fatto ben poco. In questi anni la politica del Nordest in
quest'ambito è stata disastrosa, in modo bipartisan. L'esempio più eclatante è
quello del Corridoio 5, codificato nel '95 e mai realizzato. Risale solo a
qualche mese fa la creazione del passante di Mestre, mentre a livello
ferroviario le infrastrutture sono inesistenti».





Gianni aveva individuato nella criticità infrastrutturale
del sistema la criticità basilare nel deficit di strumenti di lavoro essenziali
per una vera integrazione economica e, perché no, culturale fra l'Italia e
l'Europa centro-orientale.





La destrutturazione della lungimirante iniziativa Alpe Adria,
nata come laboratorio del futuro processo di allargamento dell'Ue, fu esiziale.





Sull’efficacia dell'Euroregione i pareri furono sempre
divergenti, aggravati nel tempo dalla divisione della ex Jugoslavia, che cambiò
completamente lo status di Slovenia e Croazia, da regioni a stati.





Mentre la maggior parte dei politici locali non riuscì ad
indicare soluzioni concrete per riportare il Nordest al centro dell'Europa,
coniugando assieme gli interessi europei, quelli balcanici e quelli
mediterranei, il colto professore di chimica , educato alla severa scuola
politica laica e riformatrice dell’Unione Goliardica, sostenne che l'uscita dal
tunnel era possibile solo investendo nelle infrastrutture e modificando
l'assetto territoriale del Nordest attraverso la creazione di un'area
metropolitana che si estendesse da Trieste a Venezia. «Ma dobbiamo muoverci
subito – concludeva sempre Gianni– o ancora una volta Lubiana ci batterà sul
tempo». E si dette da fare, tanto, anche da parlamentare europeo, perché il
Corridoio 5 che da Barcellona si doveva estendere sino a Kiev passasse per
l’Italia e coinvolgesse per intero il Veneto e Trieste.





Io ringrazio la Fondazione Pietro Nenni, presieduta da Carlo Fiordaliso e la UIL tutta, ad iniziare dal suo segretario Generale Barbagallo e dal segretario generale aggiunto Bombardieri, per il difficile lavoro, coronato da successo, che ci ha permesso oggi di onorare Gianni e il socialismo italiano e spero che, con lo stesso appassionato e colto pragmatismo di De Michelis, sia possibile incentivare studi sempre più approfonditi sui nostri eroi socialisti, sulle straordinarie politiche del socialismo italiano.



Moondo
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